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Prendiamo un esempio. Quello che a Firenze si dice Grappolo d’uva, si dice a Pistoja Ciocca d’uva, a Siena Zocca d’uva, a Pisa e in altre città Pigna d’uva. Cosa si fa in un caso simile?
Qui entra un ficcanaso e dice: «Questione oziosa, dacchè l’autorità degli scrittori ha consacrata la voce Grappolo.»
Veggo, signor mio, gli rispondo con una gentilezza pari alla sua, che lei appartiene alla classe rispettabilissima per il numero, di quelli che, quando trovano difficoltà a sciogliere una questione secondo il loro desiderio, la mutano. Qui si tratta di società parlanti, e non di scrittori. Se crede che l’autorità degli scrittori sia un giudice supremo in fatto di lingua (o piuttosto il giudice supremo, giacchè il volerne più d’uno in una stessa materia, come è assurdo in logica, così riesce in pratica a un laberinto), dica le sue ragioni, ma altrove. Servitor suo, e a non rivederla.
Così, per riprendere il discorso interrotto, quelle due strisce di panno o d’altro, con le quali si sorreggono i bambini, per avvezzarli a staccarsi, a Firenze si chiamano Falde, a Siena Dande, a Pistoia Lacci, a Arezzo Caide, a Lucca Cigne, e non so se altrimenti in altre città toscane. Senza addurre altri esempi, domando di novo cosa si fa in simili casi. Metter tutte quelle varietà nel vocabolario? È una proposta assurda. Fare una scelta tra di esse? Con quale criterio, o piuttosto con quali criteri? giacchè un unico e generale criterio, il criterio del fatto, quel Possideo quia possideo, che è il titolo d’un Uso reale, non è applicabile a un Uso che si vuol creare. Ogni locuzione, per essere ammessa in un vocabolario, deve necessariamente, come s’è detto, avere un suo perchè, come l’ha per essere adoprata nel discorrere. Nel caso di cui si tratta, questi perchè, giacché l’unico manca, avrebbero a essere i pregi di diverso genere delle locuzioni toscane. Ora c’è egli un paragone, e dirò così, un saggiatore comune, a cui riferire questi pregi diversi, per decidere quale di essi deva, in un caso o in un altro, avere la preferenza? E non c’essendo questo, che non ci può essere, come potranno que’ signori prefiggersi una norma qualunque, per fare la scelta necessaria?
Ma supponendo pure (e non è poco) che, senza un tal mezzo, siano riusciti a accordarsi in ciaschedun caso, dove per un motivo, dove per un altro, e che il vocabolario sia fatto; domando se s’ha a intendere che deva rimanere immutabile in perpetuo, o che, con l’andar del tempo, possa nascere il bisogno di farci de’ mutamenti, cioè di levarne delle locuzioni e d’aggiungerne dell’altre. La prima supposizione è talmente opposta al concetto d’una lingua e, per conseguenza, d’un vocabolario, che non occorre parlarne. Ora, nel sistema su di cui avrebbe a essere formato il vocabolario supposto ora, come e dove si potrà egli trovare, e l’indizio d’un tal bisogno, e il modo di supplirci? Per un vocabolario formato su di un Uso reale, quest’Uso che fu il criterio e la guida della prima operazione, continua a esserlo delle susseguenti. Col fatto di smettere tali e tali locuzioni, e d’adottarne tali e tali altre, l’Uso dà insieme e l’indizio e il modo di levare e di aggiungere, quando il numero di queste mutazioni (sempre lente a formarsi in una maniera che prometta qualche stabilità) mostri la convenienza di riformare in parte il vocabolario. Ma in quell’altro, congegnato artifizialmente con de’ brani di diversi usi, undique collatis membris, con una scelta arbitraria, perchè diretta da ragioni più o meno probabili, ma nessuna necessaria e perentoria, come e dove, ripeto, trovare, nè indizio, nè modo di mutazioni? Il criterio, o piuttosto i critéri della scelta erano i pregi delle diverse locuzioni; e qual motivo di mutazione si può trovare in questi? Abbiamo potuto supporre bell’e fatto quel vocabolario, Perchè alla fin fine un accordo arbitrario tra varie persone è sempre possibile. Ma in quest’altra parte essenzialissima, non