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LETTERA
INTORNO AL VOCABOLARIO
- Carissimo Bonghi,
Il chiarissimo signor professore Tigri, nella lettera inserita nella Perseveranza, del 24 marzo, mi ha fatto l’onore di nominarmi, con queste parole: «Non dubito punto che, quando il Manzoni diceva che l’idioma nazionale dovesse essere il fiorentino, non volesse intendere il buon toscano.» Nel cappello premesso a quella lettera, voi, da bon amico e da bon complice, avete detto che per fiorentino intendevo fiorentino. E sta bene; ma ora dovete concedermi un posto nella Perseveranza, per dir le ragioni che mi fanno pensar così.
Non intendo con ciò, neppur per idea, di venire a contesa col dotto Professore. Quando mi ci portasse il mio genio (cosa che non è, come sapete), le sue parole non me ne darebbero, nè il titolo, nè il mezzo diretto. Dell’attribuirmi l’opinione da lui creduta giusta (che non è se non un tratto di benevolenza) egli non adduce alcun motivo; e sarebbe cosa sconveniente da parte mia, l’andarne fantasticando, e arrogarmi di far io di mia testa, il suo tema per combatterlo. Quelle parole dunque, e ancor più le vostre, sono per me una semplice occasione, o un pretesto, se volete, per litigare con molti, i quali oppongono il toscano al fiorentino, come il vero mezzo per dare in fatto all’Italia una lingua comune.
Le loro ragioni sono note abbastanza per l’uso che n’avrò a fare, e delle persone io non ne conosco veruna: è tutto ciò che ci vuole per litigare, e con cognizione di causa, e con libertà. Se a qualcheduno di loro verrà sotto gli occhi questa lettera, e se, o la noia o il dispetto non gl’impedirà d’arrivare alla fine, spero che la mia intenzione tutt’altro che ostile gli apparirà abbastanza chiara per rabbonirlo.
Avrò a toccar di novo cose che ho già dette altrove; ma sarà per necessità del ragionamento, e servirà a metterle in maggior lume.
Siccome poi non si può disputar di nulla, senza prender le mosse da un qualche punto su di cui si sia d’accordo (altrimenti s’avrebbe a andare indietro all’infinito); così do per sottintese, senza timore d’essere contradetto, le due proposizioni seguenti: la prima, che il fine da volersi è che l’Italia possa acquistare una lingua comune di fatto; l’altra, che un vocabolario è un istrumento efficacissimo per un tal fine.
Posto ciò, la questione si riduce a cercare se, ad ottenerlo, convenga più che il vocabolario sia formato, o sul parlar di Firenze, o sui parlari della Toscana.
Ma per non lavorare in aria, è necessario prima di tutto esaminare se