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teria conserva necessariamente quella maggiore identità. Si ha quindi ragione di chiamarla unità a confronto di una miscellanea artifiziale, d’una rappezzatura arbitraria di brani staccati da diversi Usi.
Alla domanda di cosa s’abbia a fare di tali varietà nel compilare il vocabolario, è facile il rispondere. Registrarle, perchè non sono fuori affatto dell’Uso e ci stanno mescolate con esso: ma aggiungere l’indicazione (approssimativa, s’intende) dei gradi e dei modi del loro non esserci interamente. E in questo, come in molti altri particolari, abbiamo un utile esempio nel Vocabolario dell’Accademia Francese, dove a quelle varietà si vedono applicate diverse formule, come: «Il vieillit — Il est peu usitè — Il se dit quelquefois pour.... — On ne l’emploie que dans cette phrase.... — On dit aussi — Il se dit encore vulgairement — Il est très familier — Il est populaire, — » e simili. Così, quando per materia dell’osservazione si prende il fatto, anche i dubbi diventano parte della cognizione. C’è poi l’altro gran vantaggio, che quelle varietà sono naturalmente circoscritte e limitate, e c’è quindi la possibilità di raccoglierle; mentre nel fare una scelta tra delle locuzioni prese da diversi idiomi, si troveranno bensì cento motivi per principiare, ma non una vera e perentoria ragione di finire.
Riguardo poi alla lingua di Mercato Vecchio e alla lingua di Camaldoli, dico che coi traslati bisogna aprir bene gli occhi, perchè sono traditori. Siccome adoprano un vocabolo che ha un suo significato anteriore e proprio, affine di fare intendere un’altra cosa per mezzo d’una somiglianza qualunque; così c’è sempre pericolo che quel vocabolo, col suono stesso, richiami la mente al concetto proprio che è il più consueto, e che la mente poi ragioni su di quello, come se fosse lui il soggetto del discorso. È un traslato simile a quello che fa dire: la lingua della musica, la lingua della botanica e simili; se non che in questi casi non nasce l’equivoco, perchè le materie di queste sono spiccatamente distinte dalle altre. Le frasi: Lingua di Mercato Vecchio, e Lingua di Camaldoli non vogliono dir altro che una somma, e una piccola somma, di differenze speciali dal parlar comune di Firenze; e tanto sono lontane queste differenze dal costituire una lingua, che, se i mercatini e gli abitanti di Camaldoli non avessero altro che quelle per dire ciò che gli occorre di dire, non avrebbero il mezzo di discorrere, nè con gli altri fiorentini, nè tra di loro. Ciò che li fa essere uomini parlanti, come dice Omero, è il fiorentino di Firenze, è quel sacrosanto Uso, nel quale incastrano poi quelle loro varietà. E se vogliamo vedere che conto s’abbia a fare di quel linguaggio misto, il miglior mezzo d’evitare ogni parzialità, è di rimetterne la decisione a quegli uomini stessi. Si domandi dunque a loro, se credono che il loro linguaggio sia il bono, quello che s’abbia a insegnar nelle scole. Ho paura che rispondano con delle insolenze, perchè credono che si voglia canzonarli. E con ciò riconoscono implicitamente che c’è in Firenze una bona lingua e che questa bona lingua non è la loro. Quando i Francesi dicono Le langage des halles, intendono forse dire che in Parigi ci siano due lingue? Eh via! non badiamo alle parole, o, per dir meglio, badiamoci bene, perchè non ci abbiano a menar fuori di strada.
Non posso finire senza levar di mezzo una falsa interpretazione; la quale, senza aver nessuna forza contro le ragioni addotte, può disturbarne l’effetto. «Dunque, secondo questa teoria, mi sento dire, tante locuzioni toscane esprimenti concetti ai quali l’Uso fiorentino non provvede, dovranno, per questo solo, quantunque utili, quantunque analoghe ad esso per la forma, a segno di non esserne distinguibili per chi non conosca il fatto materiale, dovranno, per ciò solo che non fanno parte di quell’Uso così rigorosamente preso, esser bandite, condannate all’ob-