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e quale di queste due cose, tra le quali s’ha a fare la scelta, somministri il mezzo di formare un vocabolario, non in qualunque maniera, ma logicamente, e con un resultato definitivo. È troppo evidente che, dove mancasse una tal condizione, tutte le ragioni secondarie che si potessero addurre, non riuscirebbero ad altro che a perdita di tempo, e a traviamento di raziocinio.

Ed è una tale questione preliminare, che tenterò di sciogliere in questa lettera, mettendo alla prova le due cose l’una dopo l’altra, e principiando da Firenze, che è quella che mi darà meno da fare.

Scelgo dunque (in idea s’intende) de’ Fiorentini, in parte dotti di professione, e tutti colti, in un numero sufficiente per condurre la cosa a termine con sollecitudine e insieme con sicurezza. E usando della padronanza che si ha sui personaggi ideali, li fo sedere intorno a un tavolone, e dico loro: «Fate un’opera bona, mettete insieme un vocabolario fiorentino.»

Ne hanno il mezzo? E quale?

Eh, per amor del cielo! il mezzo più pronto, più naturale, più esperimentato, quello di cui si servono quando parlano. E che sia il vero, osserviamo cosa faccia l’uomo quando parla. Sarà l’affare d’un momento, e l’applicazione verrà subito: che non ci avessero a sfuggire i lettori, per paura della metafisica. L’uomo quando parla fa un’operazione meravigliosa, e che non par tale, appunto perchè è meravigliosamente connaturata, e con la sua mente, e con l’organo corporeo relativo al fine. Forma, con una rapidità inconcepibile, ma insieme innegabile, più giudizi, spesso complicati e finissimi, sopra ciascheduna delle parole che manda fuori seguitamente, e come una cosa sola: giudizi sul significato speciale di ciascheduna, sulle sue relazioni con quelle che la precedono e con quelle che devono venir dietro, e sopra altre circostanze, secondo il caso. E quale è il criterio che lo guida in questa operazione? dico il criterio, perchè se avesse a fare la scelta tra diversi, l’operazione stessa sarebbe impossibile. Questo unico criterio è l’esperienza.

Dall’aver tante volte sentite quelle parole usate a uno stesso intento, nelle stesse attitudini, con le stesse corrispondenze, induce, affatto ragionevolmente, che serviranno a far passare il suo pensiero nella mente del suo interlocutore; giacchè suppongo qui il caso più frequente, cioè il discorso tra persone che parlino lo stesso idioma. È insomma ciò che, in fatto di lingua, si chiama, per antonomasia, l’Uso; quell’Uso che è detto l’arbitro, il maestro, il padrone, fino il tiranno delle lingue, e anche da quelli che, all’atto pratico, fondano le loro teorie, e i loro giudizi sopra non so quant’altre cose diverse, secondo l’opportunità, senza rispetto all’arbitro, al maestro, al padrone, e senza paura del tiranno.

Ora, l’operazione che ho descritta (grettamente, ma, spero non lungamente) è la medesima che hanno a fare i miei convocati in Firenze, e col medesimo criterio, quello dell’Uso; con la differenza che, nel fatto di chi parla, il criterio è applicato a delle circostanze speciali, e la sua applicabilità ai casi simili c’è solamente sottintesa, ma sottintesa per necessità logica; e dai compositori d’un vocabolario, una tale applicabilità è avvertitamente contemplata, e indicata con apposite definizioni.

Questi hanno poi due gran vantaggi, e su chi parla, e su di loro medesimi considerati come parlanti: quello di poter fare la cosa con comodo e fermarsi, dove par loro che ne nasca il bisogno per applicare più ponderatamente il criterio; e quello di poterne consultare tra di loro: due cose che diminuiscono di molto la possibilità d’ingannarsi. Questa possibilità esiste però sempre: chi ne potrebbe dubitare? Ma c’è anche la possibilità del rimedio, cioè quella di ricorrere a quel tale Uso sem-