Lepida et tristia/Antidotum impietatis
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ANTIDOTUM IMPIETATIS
Questa è la leggenda del castello e me la raccontava sotto l’arco istoriato del torrione un pastore, proprio al tempo d’aprile.
Sopra l’arco sta ancora la gotica scritta Antidotum impietatis, perchè dall’alto della detta torre si apriva un trabocchetto e la gente sprofondava a capofitto e si sfracellava in un sotterraneo, dove anche oggi — assicura il pastore — ci si sente.
Egli cominciò a raccontare;
Al tempo dei tempi quando il vapore non correva giù nella valle e i marinai si arrischiavano a pena di andare a randa a randa lungo la riva del mare, era padrone di questo castello un certo signore che fu chiamato messer Anastagio, che non credeva nè in Dio nè nel diavolo ed era il più crudele uomo e tiranno che ci fosse per tutti questi monti, fin dove si vede.
Ora avvenne che una volta lui stava sotto quest’arco, come stiamo adesso noi, e guardava giù in fondo nella piazza del borgo e vedeva la gente che si affollava attorno ad un uomo che era condotto da un cane.
Il cane conduceva l’uomo da una porta ad un’altra, e tutti facevano la limosina; poi infine prese la salita e montò verso il castello; ma nè meno i ragazzi gli venivano dietro, tanta era la paura anche dell’ombra di messer Anastagio.
Ma il cane prende la salita e l’uomo dietro.
Il cane era un barbone nero e l’uomo aveva una barba nera a ventaglio così grande che gli copriva le spalle e tutto il petto. Aveva sembiante e vesti di pellegrino, e le gambe che moveva a passi grandi e lenti con l’aiuto d’un bastone, erano ravvolte di cenci e di corde.
Come furono davanti messer Anastagio, il barbone si fermò e allora quel pellegrino levò di sotto il mantello un treppiede e con un ferro vi batteva in cadenza, e con una voce smemorata che pareva un’eco di cose lontane, ripeteva una cantilena:
Cristiani, buona gente, |
Interruppe allora forte corrucciato messer Anastagio:
— Perchè tu mi guardi così con quegli occhi?
Gli occhi del pellegrino erano in verità grandi ed immobili su di messer Anastagio.
— Io non vi guardo, domine — rispose quegli, interrompendo a gran fatica la cantilena.
— Tu invece mi guardi! — ruggì messer Anastagio.
E veramente quegli guardava.
— Io non vi guardo, — ripetè. — Io sono cieco.
Messer Anastagio fissò meglio, e vide che le palle degli occhi erano state strappate via ed erano rimasti due buchi neri nella testa come si vede nei teschi; e parevano grandissimi ed orrendi.
— E allora chi ti ha condotto fin quassù?
— Il mio cane, domine. È lui che mi conduce per il mondo....
E continuò con quella specie di sistro la cantilena.
— Ehi, Biondotto, ehi. Morello! — chiamò forte, sghignazzando, messer Anastagio.
Vennero fuori due facce da scomunicati che facevano paura.
— Va là, torci il collo a quella bestia! — comandò, sghignazzando sempre, messer Anastagio, — così lui non gira più il mondo a spaventar la gente.
Il can barbone non capì e, immoto com’era, pareva meditare nella sua testa tonda; ma ben capì il pellegrino che interruppe il canto, levò le braccia, levò la barba e parve diventar grande come tutto il ponte levatoio. Poi tirò la catena con violenza; ghermì, si strinse il barbone sul petto come una madre fa col bambino e rimase lì davanti messer Anastagio con le gambe spalancate, l’una avanti, l’altra dietro, in atto di sfida, le occhiaie fisse, e dalla bocca aperta non uscivano parole, ma come un rantolo. Invece di fuggire stava lì che parea per disfida ed era invece per terrore.
— Dai, Biondotto! dai, Morello! — incitò il bel signore che ci pigliava un gusto matto.
I due si buttarono sotto. Fu una rissa feroce. Finalmente i manigoldi riuscirono a strappar il barbone dalle braccia del mendicante.
Il quale scese giù a gran passi la via del castello, e ogni momento si voltava indietro verso messer Anastagio con le braccia aperte e i pugni chiusi e si udiva come un ruggito, e più si allontanava più l’uomo pareva grande e pauroso.
— Non ci ha gli occhi, ma par che ci veda lo stesso; e se ci vede, mi ha fatto il mal’occhio! — pensò il bel signore. Non credeva nè a Dio ne ai santi ma credeva nel mal’occhio e nella stregoneria.
— Ehi, Biondotto! ehi, Morello! — chiamò ancora dopo alcun tempo in tuono di comando. I due vennero.
— L’avete impiccato, il cane?
— Si, certo, l’abbiamo — risposero.
— Bene sta! allora andate giù nel borgo e pigliatemi quel cieco dell’inferno; ci deve essere passato adesso. Lo impiccheremo anche lui ai merli del torrione.
I due corsero al borgo e poco dopo tornarono e riportarono che nessuno avea visto il cieco: dovea aver preso una via di campagna.
— Allora montate a cavallo e con voi montino gli altri e ricercatelo per ogni strada e riportatemelo.
⁂
Poco dopo la compagnia a cavallo uscì dal castello; scese a precipizio la strada e messer Anastagio li vedea di gran corsa disperdersi e scomparire per la vallata.
Vedeva anche il giorno lentamente mancare nel gran silenzio dei monti e delle valli. Già dalle parti del mare le tenebre erano discese, e verso occidente, dietro le nubi che si stendevano lunghe come cortinaggi di porpora ardente, il sole precipitava. Il sole scomparve dietro i monti: le nubi illanguidivano con gran tristezza e pareva a messer Anastagio che su per i poggi s’ergesse un’ombra gigante che avea la figura del pellegrino. Erano le nubi del tramonto che pigliavano quelle forme umane. E venne la notte.
⁂
La luna copriva la valle di grandi ombre e di gran luce quando i cavalieri furono di ritorno al castello. I cavalli grondavano schiuma e sudore; gli uomini ansimavano dalla corsa, ma il cieco non l’aveano preso, nè pastore nè viandante lo avea visto passare.
E messer Anastagio ne fu grandemente turbato.
⁂
Quando messer Anastagio dopo alcun tempo fece per andare a letto, scorse nel mezzo del cortile il can barbone che penzolava appiccato all’architrave del pozzo, così com’egli avea comandato, e l’ombra lugubre e grottesca della carogna si stampava sul selciato, battuto dalla luna.
Anche il barbone con le pupille fuor dell’orbita gli faceva il mal’occhio, e messer Anastagio avea paura del mal’occhio.
Pensò di farla buttar giù dagli spaldi del castello la mala bestia; ma il dì seguente l’avrebbe veduta ancora: e poi tutti i suoi a quell’ora dormivano.
Allora pensò di seppellir lui stesso la carogna nel fondo del sotterraneo e così non l’avrebbe più riveduta e tutto sarebbe finito sotto quattro palate di terra. Tagliò col pugnale la corda che reggeva il can barbone appiccato, e questo cadde prima sul ripiano del pozzo e poi sul terreno così sconciamente che messer Anastagio die un balzo indietro. Pareva viva la mala bestia!
Accese una torcia, prese il capo della corda e si trascinò dietro il cane appiccato.
Messer Anastagio scese dunque i gradini spingendo avanti la torcia. I gradini erano erti e viscidi dall’umidore. Grossi topi, con le lunghe code, frullavano e fuggivano; qualche pipistrello, svegliato dal fumo e dalla luce, batteva le ali di carne, uncinate, fredde, sul volto a messer Anastagio.
Messer Anastagio se ne rideva dei topi e dei nottoli, ma gli gelava il sangue quel tonfo morto che faceva il barbone rotolando giù di scalino in scalino, e che egli trascinava dietro di sè col capo della corda.
Si voltava ogni tanto per timore che l’ertezza della discesa sospingesse la carogna sino a’ suoi piedi e non voleva esserne toccato, e però scendeva lentamente.
Quando fu nel sotterraneo, dove c’era una vanga, fermò la torcia in un anello e cominciò a scavare.
E scava e scava!
Grondava di sudore perchè il terreno era duro e pieno di sassi. Anche il ritmo della vanga gli dava tristezza e perciò precipitava per non sentire quei colpi uguali che risonavano nel gelido silenzio della grotta e sapevano d’incantamento.
Finalmente gli parve aver scavato a bastanza. Tirò la carogna nella buca, vi buttò sopra terra, sassi: staccò la torcia e fuggi senza nè meno voltare il capo. Fuggì; ma s’intricava in altri sotterranei e grotte che imbucavano l’una nell’altra.
⁂
Egli s’accorse che correva solo quando inciampò nel primo gradino della scala. Finalmente! Ma la scala era a chiocciola! Se fosse stata diritta, la avrebbe salita in un fiat. Maledetti i suoi vecchi che l’avevano costrutta così!
Finalmente arrivò davanti alla porta d’uscita, la quale era rimasta socchiusa.
E rivide la faccia della luna, che avea le occhiaie grandi come quelle del cieco.
Tranne la faccia della luna niente era mutato: il cortile del castello dormiva nel morto chiarore e la lunga fila degli archi, sorretti dalle esili colonne, tracciava un lieve e confuso arabesco di ombre che si facevano sottili e morivano nell’angolo. Nessun rumore! Solo tendendo l’orecchio gli pareva d’udire un ronzio confuso. Era il canto dei grilli nella valle fonda. Tacevano; poi uno ripigliava il canto e tutti gli altri gli rispondevano, e ritornava anche il silenzio, e la luna si faceva più pallida precipitando verso il mare; e le ombre del cortile si facevano più grandi.
In quella un pensiero orribile attraversò la mente di messer Anastagio. e una scintilla della torcia avesse dato fuoco al sotterraneo?
Il castello ne sarebbe bruciato tutto! Ben è vero che le pareti del sotterraneo erano di grosse pietre e di marmo, anzi erano così viscide e gemevano tanta acqua che il fuoco non ci poteva; poi il soffitto era a vôlta tutta reale. Dunque il fuoco non ci poteva nulla! Ma vero è anche che il pensiero del fuoco non si partiva dalla mente di messer Anastagio, anzi ingigantiva sempre di più, e questo pensiero lo costrinse a scendere un’altra volta nel sotterraneo.
In un minuto sarebbe sceso e salito e poi avrebbe dormito in pace.
E scese.
Ma allora un buffo di vento, cadendo dall’alto, spense la torcia, e parve il fiato di un gigante che avesse soffiato.
— Quel cane del guardiano ha lasciato aperto lo sportello sull’alto della torre. Lo farò impiccare ai merli domattina! — bestemmiò messer Anastagio, e si trovò al buio in compagnia di quelle tenebre, animate dal suo grande terrore.
C’era proprio da ridere: come poteva appiccarsi fuoco se le pareti erano di marmo con la vôlta reale? C’era da ridere in verità. E messer Anastagio rideva, e i denti gli battevano gli uni contro gli altri come le nacchere.
— Lo farò impiccare! Intanto avanti! Tanto vale cavarsi la curiosità. Dopo dormirò in pace.
Avanzò a tentoni.
Ad una certa svoltata si ricordò che in alto vi doveva essere una fìnestrina e si doveva vedere il lume del cielo. Invece tutto era buio. Evidentemente la luna era tramontata e il cielo era senza stelle.
Avanzò di corsa, colle fauci asciutte e con un braccio teso in avanti. Il braccio spinse la porta del sotterraneo che s’apriva per di dentro e si mosse all’urto.
— Maledizione! lo dicevo io! — sclamò messer Anastagio, e questo suono gli uscì come un rantolo di rabbia, e saltò furibondo in mezzo del sotterraneo dove aveva sepolto il cane barbone; saltò e battè col piede per ispegnere.
— Maledizione, lo sentiva io che c’era il fuoco!
E in verità dove era stato sepolto il barbone luceva qualche cosa di luminoso come il fuoco. Messer Anastagio quivi era balzato e pestò per ispegnere; ma il luccichio non si spense.
Era una luce come sotterranea, color di fosforo che, da quel punto ove era, si veniva dilatando silenziosamente senza crepitare. E messer Anastagio pestava pazzamente su quella luce, che invece di spegnersi, ingrandiva dolcemente.
Ingrandiva e intanto pigliava una figura spaventosa per gli occhi di messer Anastagio. Quella luce disegnava la testa del cieco, con la gran barba a ventaglio fatta di luce e le occhiaie vuote, immobili, fatte di luce. Quella testa mostruosa fissava messer Anastagio, e poi che ebbe fissato, si mosse, percorse lenta, senza rumore, il pavimento; e poi si collocò su la parete e quivi si fermò a guardare ancora, a guardar sempre messer Anastagio. E mentre questi tutto smarrito dall’angoscia e dal terrore, sbarrava le pupille contro quell’imagine, una seconda testa, luminosa come la prima, si veniva formando nel luogo istesso dove si era formata l’altra; e pur questa seconda oscillò, e si mosse smemorata e silenziosa come un barbaglio e salì su la parete accanto alla prima. E così una terza, una quarta; e finchè rimase posto su la parete, novelle teste del cieco si venivano formando, e tutte in fila guardavano immobili messer Anastagio.
⁂
Al mattino, quando le guardie scesero nel sotterraneo, videro il loro signore disteso morto con le braccia aperte accanto alla carogna del cane barbone, appena coperto da poche palate di terra.
Ed è per questo che voi leggete anche oggi su la porta del sotterraneo la scritta: Antidotum impietatis.