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122 antidotum impietatis

dore. Grossi topi, con le lunghe code, frullavano e fuggivano; qualche pipistrello, svegliato dal fumo e dalla luce, batteva le ali di carne, uncinate, fredde, sul volto a messer Anastagio.

Messer Anastagio se ne rideva dei topi e dei nottoli, ma gli gelava il sangue quel tonfo morto che faceva il barbone rotolando giù di scalino in scalino, e che egli trascinava dietro di sè col capo della corda.

Si voltava ogni tanto per timore che l’ertezza della discesa sospingesse la carogna sino a’ suoi piedi e non voleva esserne toccato, e però scendeva lentamente.

Quando fu nel sotterraneo, dove c’era una vanga, fermò la torcia in un anello e cominciò a scavare.

E scava e scava!

Grondava di sudore perchè il terreno era duro e pieno di sassi. Anche il ritmo della vanga gli dava tristezza e perciò precipitava per non sentire quei colpi uguali che risonavano nel gelido silenzio della grotta e sapevano d’incantamento.

Finalmente gli parve aver scavato a bastanza. Tirò la carogna nella buca, vi buttò sopra terra, sassi: staccò la torcia e fuggi senza nè meno voltare il capo. Fuggì; ma s’intricava in altri sotterranei e grotte che imbucavano l’una nell’altra.

Egli s’accorse che correva solo quando inciampò nel primo gradino della scala. Finalmente! Ma la scala era a chiocciola! Se fosse stata diritta, la avrebbe salita in un fiat. Maledetti i suoi vecchi che l’avevano costrutta così!

Finalmente arrivò davanti alla porta d’uscita, la quale era rimasta socchiusa.

E rivide la faccia della luna, che avea le occhiaie grandi come quelle del cieco.