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antidotum impietatis 123


Tranne la faccia della luna niente era mutato: il cortile del castello dormiva nel morto chiarore e la lunga fila degli archi, sorretti dalle esili colonne, tracciava un lieve e confuso arabesco di ombre che si facevano sottili e morivano nell’angolo. Nessun rumore! Solo tendendo l’orecchio gli pareva d’udire un ronzio confuso. Era il canto dei grilli nella valle fonda. Tacevano; poi uno ripigliava il canto e tutti gli altri gli rispondevano, e ritornava anche il silenzio, e la luna si faceva più pallida precipitando verso il mare; e le ombre del cortile si facevano più grandi.

In quella un pensiero orribile attraversò la mente di messer Anastagio. e una scintilla della torcia avesse dato fuoco al sotterraneo?

Il castello ne sarebbe bruciato tutto! Ben è vero che le pareti del sotterraneo erano di grosse pietre e di marmo, anzi erano così viscide e gemevano tanta acqua che il fuoco non ci poteva; poi il soffitto era a vôlta tutta reale. Dunque il fuoco non ci poteva nulla! Ma vero è anche che il pensiero del fuoco non si partiva dalla mente di messer Anastagio, anzi ingigantiva sempre di più, e questo pensiero lo costrinse a scendere un’altra volta nel sotterraneo.

In un minuto sarebbe sceso e salito e poi avrebbe dormito in pace.

E scese.

Ma allora un buffo di vento, cadendo dall’alto, spense la torcia, e parve il fiato di un gigante che avesse soffiato.

— Quel cane del guardiano ha lasciato aperto lo sportello sull’alto della torre. Lo farò impiccare ai merli domattina! — bestemmiò messer Anastagio, e si trovò al buio in compagnia di quelle tenebre, animate dal suo grande terrore.

C’era proprio da ridere: come poteva appiccarsi fuoco se le pareti erano di marmo con la vôlta reale? C’era da