Leonardo da Vinci e la scultura/Capitolo IV. L'arte di Leonardo nella scultura del tempo

Capitolo IV. L'arte di Leonardo nella scultura del tempo

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Capitolo IV. L'arte di Leonardo nella scultura del tempo
Capitolo III. I monumenti equestri TAVOLE
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CAPITOLO IV


L’ARTE DI LEONARDO
NELLA SCULTURA DEL TEMPO



Se l’influsso maggiore di Leonardo si estese alla pittura in Lombardia, dov’egli attrasse a se quasi interamente l’arte pittorica, specialmente dopo la caduta di Lodovico il Moro, tuttavia nemmeno la scultura ne rimase estranea. E poiché sull’argomento la critica moderna, pur avvedendosi del fenomeno artistico, non vi si mtrattenne come l’argomento stesso invita a fare, vediamo di addentrarci nell’esame di alcune opere meglio convenienti al nostro studio.

Di quell’influsso s’avvide Adolfo Venturi, ma non volle o non potè — sospinto da più vasto tema — precisare caratteri e forme. In Lombardia «Leonardo da Vinci penetrava nell’animo de’ nuovi scultori, e già nella Certosa, intorno all’aitar maggiore e nel coro, come nel pulpito del refettorio, par di vedere gli scultori arrendersi a forme che possono trovar riscontro in quelle dipinte da Marco d’Oggiono. Alla corrente nuova s’abbandonò Benedetto Briosce rimodernatosi alla cinquecentesca» (’). Ma ben altri artisti seguirono quell’indirizzo e non sempre attraverso le forme degli allievi di Leonardo. Primo di tutti, per valore e per ragion di tempo, fu Cristoforo Solari detto il Gobbo, artista apprezzatissimo a Milano (’) A. Venturi, Storia dell’Arie, voi. VF, La scultura del Qualtrocenlo..Milano, Hoepli. 1908. [p. 102 modifica]durante la signoria del Moro e dopo1. Il ducale scultore iniziatosi all'arte in Venezia, se crediamo al Paoletti, era a Milano nel 1495 e da allora lavorò indefessamente nella regione sua.

Quando, il 29 gennaio 1497, moriva Beatrice d’Este, il marito volle dare alle care spoglie il più decoroso ricetto. In un suo memoriale, che reca la data del penultimo giugno di quell'anno, Lodovico il Moro ordinava al proprio segretario de vedere se'l Gobbo ultra la sepoltura, potesse fare de l’altare in l’anno presente.... item perchè la sepoltura sia finita tutta in uno tempo se soliciti el Gobbo ad lavorare al coperchio et ad attendere ad tutte le altre cose li vanno. In modo che quando sarà finito el navello (l'avello) sii fornito el resto della sepoltura2. E non è questo il solo documento che ricordi la sepoltura nella quale il duca volle essere rappresentato steso accanto alla amata consorte. Le due figure tombali destinate alla chiesa di Santa Maria delle Grazie finiron poi alla Certosa di Pavia.

Nonostante certa durezza nell'esecuzione ereditata dalla precedente scuola lombarda e il tritume delle pieghe caro ai maestri della generazione precedente, le due figure non mancano di dignità e di solennità. I visi son modellati con larghezza e, specialmente quello di Lodovico, accenna ai nuovi canoni leonardeschi. Fu notato che le due teste «sembran tratte da un dipinto di Boltraffio»3. Ma questo aristocratico [p. 103 modifica]seguace di Leonardo era allora trentenne, così che la sua attività si svolse quasi esclusivamente più tardi. Forse è più esatto constatare il buon influsso diretto dell'arte leonardesca in quell'opera giovanile del Solari, la cui attività corre parallela a quella del Boltraffio.

Ma i ricordi della grande arte ritornano in altre opere del Gobbo, anche quando maggior scioltezza di modellato e di esecuzione raccomanderanno lo scultore fra i principali della sua regione.

Così gli avvenne nell’eseguire nel l502 le statue di Adamo e d'Eva nel Duomo di Milano, in origine dinnanzi alla fronte dove il Vasari li vide. Adamo, dall'aspetto dolce, quasi apollineo, appoggia il peso del corpo sulla gamba destra e il braccio sinistro leziosamente sul lungo manico della zappa; intorno ai lombi gira un tralcio: ai suoi piedi è Abele, un putto paffuto e sorridente come un piccolo Bacco. Il viso, piuttosto nell'esteriorità delle linee generali, ricorda un tipo caro all'arte leonardesca meglio che quello dell'Eva, piacevole figura eseguita tuttavia con maggior larghezza di piani, benché anch’essa non molto corretta nel ventre piatto, nelle gambe pesanti, come di legno, nei piedi troppo grandi. Forse la figura fu ultimata da Gerolamo da Novara, che i fabbricieri del Duomo avevan dato a collaboratore al nostro perchè il Solari era allora occupato anche altrove, fra l'altro per il Trivulzio.

Più spiccato è l'ossequio all’arte di Leonardo in altra opera — firmata — del Gobbo: la grande statua di Cristo alla colonna, nella sagrestia meridionale del Duomo stesso. Il Redentore, legato, con le mani dietro il dorso, alla colonna, un po’ curvo, la gamba destra avanzata sembra voler sfuggire alle percosse degli sgherri. Il suo viso è dolce, incorniciato da troppo lunghe chiome un po’ leziosamente ondulate [p. 104 modifica]sulle spalle e ha l'occhio acuto, indagatore. I piani del corpo, nel petto specialmente, son larghi, ma sempre un po’ superficiali, come in tutte le opere del Solari. Nel drappo intorno ai lombi ritorna l'esagerato lavorio delle pieghe che sembran canne. Ma il viso è ispirato ancora, più spiccatamente che nell'Adamo, ai canoni leonardeschi negli zigomi larghi, nell'espressione, nella stessa forma della barba. Di ritorno da Roma nel 1514, la Fabbriceria lo riaccolse, con alte professioni di stima e d’elogio, al proprio servizio, accordandogli in aiuto il figlio Paolo e lo scultore Michele da Merate, suo nipote4. Ma l'opera sua successiva a pro del Duomo non è sufficientemente chiarita. Vorremmo attribuirgli, fra diverse figure che ricordano suoi caratteri e che per lo meno provano ch'egli raccolse omaggio d'imitatori, la nobile figura di San Girolamo ritto in piedi, nudo, col teschio in mano e quella, delicata, squisita di San Sebastiano: che entrambe fanno parte del giro di statue ornanti la cornice a strombatura del grande finestrone nella parte posteriore, in corrispondenza alla sagrestia.

Più fiacco, ma eseguito a imitazione della figura del Solari, è 1* altro Cristo, con la croce, in una nicchia della sagrestia settentrionale del Duomo, che altri avvicinò alla nota figura di Redentore di Michelangiolo, attribuendolo ad un Antonio da Viggiù (il nome del quale non appare negli Annali del Duomo) «seguace certo dei buoni dettami della scuola del Gobbo»5. Non saremmo disposti ad attribuire invece al Gobbo la figura d’uomo barbuto, nudo, nel Duomo stesso assegnatagli dal Nebbia6. [p. 105 modifica]Di Cristoforo Solari è ritenuto un busto con la mezza figura del Redentore, in bianco marmo di Gandoglia che il tempo ha ricoperto di una patina giallognola, presso il Museo Archeologico di Milano: figura di un sentimento superiore a quello delle altre esaminate ora, nella quale tuttavia ritornano certe consuetudini dello scalpello abile ma uniforme, certi caratteri propri all'arte del Gobbo, fra cui quei capelli scorrenti lisci lisci, come impomatati intorno all'ampio cranio, quali sono nel Cristo alla colonna; forme e caratteri che ritornano in altro busto in marmo rappresentante San Giovanni Battista, lungo chiomato, il capo reclinato in delicata rassegnazione, di proprietà del marchese Passati a Milano. E già altra volta notammo la rassomiglianza di questo col busto di San Giovanni Battista del Museo di South Kensington — che si volle attribuire a Leonardo — nella modellatura, nelle braccia sottili, nella forma dalle chiome fluenti7.

In un Crocefisso in bronzo del Museo del Louvre a Parigi (edito dal Bode) ritornano caratteri dell'arte del Solari, non escluse le pieghe bizzarre nel drappo che copre i lombi del Redentore.

A Cristoforo vien dato il fine medaglione con la Deposizione di Gesù Cristo nel centro del bassorilievo del pallio Dell’aitar maggiore della Certosa di Pavia. Ma i caratteri non sono i suoi. A lui deve invece appartenere il delicato gruppo della Pietà nella Certosa stessa. Cristo sorge dalla tomba, il capo spento nella morte, le braccia aperte, sorretto da due angioli inginocchiati. Qualche po' del sapore dell'arte leonardesca è passato nell'opera dell'attivo ma monotono scultore lombardo, che legò il proprio nome anche a [p. 106 modifica]diverse opere di architettura, nelle quali trionfa preferibilmente l'eleganza della grande arte di Bramante.

V'è una serie di piccoli bassorilievi, quasi costantemente con la Madonna e il Bambino, sparsi per Milano e la Lombardia, che vengono, pel solito, attribuiti al nostro scultore, per quanto non manchino rapporti — certo spiegabili con la affinità di tendenza — con l’arte del Fusina. Tutto un gruppo se ne conserva presso il Museo Archeologico di Milano (n.i 1226, 1229, 1230. 1231. 1232. 1233). La Madonna v'è rappresentata ora in atto di porgere il seno al Bambino, ora di accoglierlo con le due braccia raccolte, come in certi quadri del Solari e di Marco d’Oggiono.

Il n. 1231 — evidentemente della stessa mano — reca inciso:

ANTONINO PEROLO MD21

DIE 21 DE MAZO


nome che, se non al committente, dovesse riferirsi all'artista ci rivelerebbe uno scultore del tutto nuovo, in Lombardia. Alla stessa mano appartengono altri piccoli bassorilievi del tutto analoghi, altrove: uno nella chiesa della Passione a Milano presso l'altar maggiore, due esulati da Milano e forse dall'Italia e di cui trovammo le impronte in gesso a Bologna. In tutte queste sculturette, di un modesto carattere commerciale, l’esecuzione è accurata, a figure tondeggianti, con certe teste a palla e le nubi del fondo a striscie orizzontali e il primo piano sporgente a semicerchio dal rilievo. Non di raro due angioletti, a pena accennati nel fondo, sorreggono una tenda dietro la Vergine e le fanno capolino ai lati. Il modesto ma accurato e lezioso artista ricorda ora il Solari e ora il Luini e alle loro Madonne, tanto in voga, si attenne direttamente. [p. 107 modifica]Di Cristoforo Solari rintracciammo alcuni accurati disegni a penna, preparati per essere tradotti in bassorilievo, nella collezione della Biblioteca Ambrosiana, nelle cartelle dei disegni non esposti. Un foglio — segnato, in antico, dinnanzi e a tergo Del Gobbo scultore Milanese — rappresenta la Annunciazione, a slanciate figure in piedi e Giuditta con la testa di Oloferne nella sinistra. Un altro, evidentemente disegnato dalla stessa mano, presenta un bel gruppo della Pietà, finemente e accuratamente tratteggiato; e il gruppo, con qualche variante, ritorna in un disegno più piccolo. I caratteri leonardeschi appaiono bene nell'eleganza delle figure alte, lungo chiomate, nella nobiltà dei panneggiamenti ben condotti, nella lumeggiatura del tratteggio paziente e abile.

Nella stessa raccolta (vetrina II, antina 9) in un foglio sette disegni a matita giovaron forse per un San Sebastiano legato e potrebbero rappresentare gli studi di uno scultore lombardo di quel periodo per una delle statue del Duomo di Milano.

Altro scultore lombardo non insensibile all'arte nuova ch'ebbe a maggior rappresentante nella regione Leonardo da Vinci fu Andrea Fusina. Nel monumento dell’arcivescovo Birago in Santa Maria della Passione e in quello di Battista Bagaroto oggi conservato nel Museo Archeologico — del 1495 il primo, del 1517 il secondo, entrambi quindi sorti nel periodo del trionfo dell’arte leonardesca — - egli sfoggiò, alla moda lombarda, decorazioni esuberanti a scapito della severità dell’opera d’arte8. 11 repertorio dei motivi ornamentali appartiene ancora a quello più usato dai maestri lombardi in quel periodo e che trionfa sulla fronte della [p. 108 modifica]Certosa pavese. Dal 1497 al 1526 lavorò molto per la fabbrica del Duomo. Gli Annali vi ricordano una sua statua di Giuda Macabeo eseguita nel 1497, che ha eleganza di linee ampie e sicure, il viso ispirato e a larghi piani, le gote rotonde quali usò, fra i pittori del gruppo leonardesco, preferibilmente il Boltraffio. Ma non pochi particolari figurati, specialmente i putti, rientrano più spiccatamente nelle forme messe di moda dal maestro fiorentino. Il bassorilievo marmoreo con la Madonna che regge il Bambino nudo in atto di accogliere Francesco I di Francia, ch’è nella collezione Borromeo — e che gli ascriviamo per la forma del putto, un po’ gonfio e di modellato sommario, uguale a quelli portafestoni del monumento Birago — sembra ispirato a un disegno di Leonardo. Ma si raccosta ad alcuni dipinti di Andrea Solari, mentre la Madonna è tutta ravvolta dall’ampio manto a pieghe pesanti, che lascia scoperto il braccio fasciato da manica aderente, come in un dipinto di Andrea del Museo Poldi Pezzoli, in un secondo di Filadelfia e in altri.

Alla maniera del Fusina, specialmente nei tipi dei visi, nel raggruppar le pieghe del manto della madre che si raccolgono pesantemente sull’avambraggio per sfuggire all’indietro € nelle pieghe rigide disposte come raggi, sulla testa, si accostano alcuni piccoli bassorilievi con la Vergine e il putto del Museo Archeologico milanese. Più squisite forme leonardesche, attraverso la mollezza dell’arte del Boltraffio, presenta la elegante figura di guerriero riprodotta nella statua sulla parte posteriore del Duomo e che si vuole — non sapremmo con qual fondamento — rappresenti il duca Galeazzo Maria Sforza. Non mancano persino rapporti fisionomici — occasionali certo — fra questo viso giovanile, dagli zigomi larghi, la bocca carnosa, il naso largo, le ampie chiome [p. 109 modifica]inanellate e il ritratto del poeta Casio del Boltraffio della raccolta dell’Eremitaggio a Pietrogrado.

In altre statue ornamentali del Duomo appaiono, dove più spiccati dove meno, ricordi di tipi e di forme leonardesche: in un San Sebastiano apollineo, di elegante modellatura, il viso largo incorniciato da lunghe chiome manellate, sul tipo del ritratto ricordato, attribuito a Gio. Battista da Sesto; al quale spetterebbe anche un Sant'Andrea che sembra una delle figure di Apostoli della Cena vinciana, un po’ rammodernato; in un grandioso Tobia, tuttavia di movimento michelangiolesco; in un San Rocco della prima metà del XVI secolo, nobile figura, parca di atteggiamenti e in cui ritornano ancora ricordi delle lungo chiomate figure di Apostoli della Cena; in due tondi a bassorilievo del gugliotto dell’Amadeo, ma non certamente di questo scultore che rimase estraneo a quel movimento artistico.

Benedetto Briosco aveva eseguito, nel 1843, una statua di Santa Apollonia per il Duomo di Milano; più tardi quella di Santa Agnese e una terza9. Più continuata e meglio identificata fu l’opera sua a prò della Certosa di Pavia, dove si additano come opere sue le seguenti sculture: diverse decorazioni sulla facciata della chiesa, dov’ebbe ad aiuto il figlio Francesco (in collaborazione dell’Amadeo) e particolarmente la porta principale (1 501); la statua della Vergine, firmata da lui, sulla fronte del mausoleo di Gian Galeazzo; nella porta d* accesso alla sagrestia vecchia alcune medaglie in marmo con ritratti dei principi di casa Sforzesca, Nel movimento ampio, solenne del manto che in larghe pieghe avvolge la lunga figura della Vergine sul mausoleo a Giangaleazzo (come nella statua di Santa Agnese nel Duomo), [p. 110 modifica] nella forma del viso inscritta in un ovoide — come nelle figure muliebri del Boltraffio — e nel tipo del piccolo Gesù sono ricordi della nuova corrente artistica che muove, in Lombardia, da Leonardo. Ma nella Certosa di Pavia le reminiscenze dell’arte leonardesca non si limitano alle ricordate.

Sopratutto nei minori bassorilievi, nelle decorazioni fitte e frastagliate intorno e dietro l'altar maggiore — dov'è anche una copia languida, a rilievo, della Cena — tipi e forme leonardesche appaiono, infiacchite, fatte leziose e piuttosto attraverso l’arte del Solari pittore e di Marco d’Oggiono che su uno studio diretto dei grandi originali. Forse con qualcuno di quei prolifici decoratori che ornaron la Certosa e altre chiese di Lombardia nei primi anni del Cinquecento Leonardo fu in relazione diretta. Compare mio Benedetto scultore egli ricorda in un manoscritto (G., f. I v.°) e si vuole che alluda al Briosco10.

Certo con quel gran focolare di idee e di attività che fu il cantiere della Certosa pavese — dove pullulavan scultori e tagliapietre — egli ebbe rapporti frequenti durante la sua lunga dimora in Lombardia. I suoi stessi manoscritti ce ne offrono le prove. Egli si aggirò più volte per le vie della antica città, notò le particolarità del grande castello ducale, osservò il moto dell’acqua del Ticino e, nelle rive del fiume, avanzi di vecchie mura, colori strani dei pali, curiosità cromatiche.

Il manoscritto B abbonda tanto di ricordi pavesi che il Solmi lo credette quasi interamente scritto a Pavia, nel 1490. Certo Leonardo vi frequentò la biblioteca, ritrasse l’antico teatro eretto da Teodorico pensando a trasformarlo; disegnò, sembra, la statua del Regisole, studiò il sistema d’irrigazione dei canali. [p. 111 modifica]Frequentò i dotti della fiorente Università, vi ebbe compagni e amici che ricordò: un Marco (da Oggiono?), Gio. Antonio (il Boltraffio?), Giacomo Andrea da Ferrara, Agostino da Pavia.

È naturale quindi che rapporti d’arte si stabilissero fra il grande e i più modesti artisti addetti ai lunghi lavori della Certosa e che qualche prova di un benevolo influsso suo su di loro si osservi.

Il lezioso Agostino Busti detto il Bambaja mostra d’aver guardato a disegni e a dipinti di Leonardo. L'arte del fiorentino trionfava con tutta una scuola di pittori a lui seguaci quando il fecondo e fine scultore lavorava per chiese e per ricchi privati. Il tipo di Cristo della Cena passa, attraverso le molli grazie del Bambaja, nel Cristo alla colonna di un bassorilievo con la Flagellazione nel Museo Archeologico di Milano, tolto al monumento dei Birago all'Isola Bella. E quest’ultimo è sormontato da un elegante, molle S. Giovanni Battista di ispirazione leonardesca nell’atteggiamento, nelle forme allungate, nel tipo, frequente ne’ suoi bassorilievi, che sembrano avori a figure a tutto tondo.

Nelle collezioni qualche busto, qualche bronzetto richiamerà tipi leonardeschi. Nel Museo di Berlino due statuette, provenienti da Milano, di Giuseppe e di Maria (n.i 250 e 251) hanno tipi luineschi. Fra le plachette del Museo Nazionale di Firenze — per non ricordare altri — non mancano reminiscenze di motivi leonardeschi, sopratutto in certe figurette muliebri che ricorderanno la Flora vinciana.

Fuori della regione lombarda è raro rintracciar ricordi d’arte leonardesca in opere di scultura. E la cosa è naturale poichè fu in Lombardia che si svolse il più lungo periodo [p. 112 modifica]della attività del grande. Così che, men che in qualche artista piuttosto legato al Rustici che al suo collaboratore — come nell’ignoto autore dei busti di Fiesole ricordati — e in opere di Pierino da Vinci, è vana la ricerca di una tale influenza artistica. Le principali sculture che presentano affinità occasionali con certi aspetti dell’arte sua derivan piuttosto dalla bottega del Verrocchio; o son più tarde, come certi monumenti equestri sulle piazze di città della Toscana, in cui si notano atteggiamenti generali affini ai tipi leonardeschi che conosciamo e rappresentano eclettismi comuni nella seconda metà del Cmquecento.

Non mancarono in Lombardia e fuori imitatori di Leonardo fra gli orafi e gli intagliatori. Ma più che di imitatori si trattò veramente di modesti artisti che — a corto di motivi ornamentali — riprodussero, per esempio, la Vergine delle Rocce in smalti e in piccoli rilievi argentei; o nelle impugnature di coltelli, nelle plachette, nelle medaglie riprodusser motivi che il maestro aveva popolarizzato co’ suoi studi per i due monumenti equestri. Ve n’è nei Musei di Milano, di Firenze, di Parigi.

Più grande e fecondo e duraturo, anche se dannoso al naturale svolgimento della scuola locale, fu invece l’influsso di Leonardo sulla pittura lombarda. E ciò è ben naturale poiché r attività più appariscente di quel grande eclettico fu a prò della pittura. In essa il seme fruttificò fino a invadere tutto il campo prima un po’ ristretto dell’arte regionale e s impose e dilagò in proporzioni eccessive. In confronto a ciò gli esempi che ci siamo industriati di far conoscere nel campo della scultura son ben poca cosa. Ma non è stato forse inutile, alla miglior conoscenza di uno degli aspetti di quello che fu chiamato il prisma del genio di Leonardo, l’avervi richiamato sopra, una volta tanto, l’attenzione e lo studio.

Note

  1. F. MALAGUZZI Valeri. I Solari architetti e scultori lombardi, in «Italienische Forschungen», vol. I, a cura dell'Istituto Germanico di storia dell'Arte a Firenze, Berlino, B. Cassirer, 1906.
  2. Archivio di Stato di Milano, «Missive», 1497, c. 161, ed in «Archivio storico Lombardo», a. I, pag. 484 e VI, pag. 230.
  3. A. Venturi, op. cit.
  4. U. Nebbia, La scultura nel Duomo di Milano, Milano, Hoepli, 1908.
  5. U. Nebbia, op. cit. L’attribuzione ad Antonio di Viggiù è di Gaetano Franchetti, Storia e descrizione del Duomo di Milano. 1821.
  6. Reca il n. 93 nell'elenco del Nebbia, pag. 155.
  7. I Solari ecc. cit, dove son ricordate altre opere della bottega del Gobbo.
  8. F. MALAGUZZI VALERI, Note sulla scultura lombarda. Il Fusina e il Caradosso, in «Rassegna d'Arte», novembre 1905.
  9. NEBBIA, op. cit.
  10. Solmi, op. cit.