Le supplici (Eschilo)/Prefazione

Prefazione

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Eschilo - Le supplici (472 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1921)
Prefazione
Personaggi
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Nel Prometeo legato, il titano benefattore degli uomini predice con ricchezza di particolari le vicende che incontrerà Io nei suoi futuri errori. Poi, giunto alla nascita di Èpafo, salta cinque generazioni.


          La quinta stirpe dopo lui, progenie
          di ben cinquanta femmine, di nuovo
          ad Argo tornerà, non di suo grado,
          ma per fuggir le consanguinee nozze
          5dei lor cugini. Ardenti il sen d’amore,
          come sparvieri che colombe incalzino,
          d’empie nozze a far preda essi verranno.
          Ma un Nume a lor contenderà che godano
          le dolci membra. E la Pelasgia terra
          10li accoglierà, spenti da man donnesca,
          da femminea notturna audace strage:
          ché ogni donna il suo sposo ucciderà,
          il doppio taglio della spada a lui
          immergendo nel sangue. Oh!, tali nozze

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          15tocchino ai miei nemici! — Una fanciulla
          amore molcirà, ch’ella risparmi
          del suo letto il compagno. E il suo disegno
          non compierà; ma sceglierà, fra due,
          pria che omicida esser chiamata imbelle.
          20Regia una stirpe ad Argo essa darà.
          E lungo ora sarebbe esporre il tutto:
          ma pure, avrà da tal semenza origine
          un audace rampollo, illustre arciero,
          che me dai miei tormenti affrancherà.

Abbiamo qui, dunque, come limitato da due radure, un fitto blocco di materia mitica: e fu, quasi certamente, la materia della trilogia a cui appartennero le Supplici.

Queste furono dunque il primo dramma della trilogia: il che si ricava anche dalla presenza della grande párodos in anapesti (vedi introduzione). Abbastanza facile è determinare l’estensione del secondo: dové comprendere l’arrivo dei figli d’Egitto in Argo, il loro trionfo, non sappiamo se d’armi o d’argomenti, contro gli Argivi, o, per lo meno, contro Danao e le sue figlie, e la loro strage per mano delle Danaidi.

Riesce meno agevole decidere quale fra i titoli superstiti delle tragedie eschilee convenisse a questo secondo dramma. Si rimane incerti fra Gli Egizî (Αἰγύπτιοι) e Le Apprestatrici del Talamo (Θαλαμοποιοί). Del primo rimane una sola parola, Zagréus (epiteto di Bacco): del secondo, due versi sibillini. Come si vede, mancano le basi per una discussione concludente.

Il terzo dramma dové certo essere quello che ebbe per titolo Le Danaidi. Contenne, quasi di sicuro, la esal[p. 5 modifica]tazione di Ipermestra, che, rompendo la promessa fatta al padre, non imitò le feroci sorelle, e risparmiò lo sposo. Pausania (II, 21. 1) dice che in Argo sorgeva un santuario ad Afrodite Suada (Πειθώ), fatto erigere da Ipermestra, quando essa vinse il processo contro il padre Danao. Questo processo dové costituire il nucleo della tragedia, come il processo d’Oreste nelle Eumenidi. E come qui si sanciva e glorificava il trionfo del civile giudizio sul barbarico taglione, cosí nelle Danaidi era affermata ed esaltata la istituzione del matrimonio, dinanzi alla cui santità doveva cadere ogni altro pregiudizio, ogni altro impegno presunto. Concetto su cui Eschilo ritorna con insistenza nei tre drammi dell’Orestèa, e specialmente nelle Eumenidi, che ne sono la conclusione etica. Si ricordi ciò che dice Apollo alle Furie:

               Priva è d’onore, è nulla già, la fede
               di Giove e d’Era pronuba! Bandita
               per i tuoi detti va, spregiata Cipride,
               onde hanno ogni maggior dolcezza gli uomini:
               ché il sacro letto cui Giustizia vigila,
               per la donna, per l’uom, val più che giuro.

Queste ultime parole si attagliano perfettamente al caso di Ipermestra. Del resto, già nel finale delle Supplici, le ancelle, in contrasto con la sicurezza delle Danaidi, ambiguamente presagendo il trionfo dei figli d’Egitto, esaltano la potenza di Cipride, e oscuramente riprovano la ferocia delle indomite vergini.

E come la stessa Atena interviene nelle Eumenidi, cosí nelle Danaidi appariva Afrodite. «Il piissimo Eschilo — [p. 6 modifica]dice Ateneo (XIII, p. 600 B) — nelle Danaidi, introduce la stessa Afrodite a dire:

             Il puro ciel gode ferir la terra:
             di queste nozze amor la terra invade.
             Dal cielo sposo, a inumidir la terra,
             cade la pioggia; e agli uomini la terra
             genera armenti, e di Demètra il cibo.
             E i frutti, pel ristoro umido, agli alberi
             crescono in vetta; ed io ne son l’origine.

Questa la trilogia. E se poi cerchiamo fra i titoli e i frammenti di drammi satireschi, ferma la nostra attenzione l’Amímone. «Una volta — narra Apollodoro (2. 1. 4. 7. p. 41, 9) — fu gran siccità nella terra d’Argo, e Danao mandò le sue figlie ad attingere acqua. Una di esse, Amímone, scagliò una freccia contro un cervo, e colpí invece un satiro addormentato. Questo súbito si fece addosso alla fanciulla, per farle violenza; ma apparve d’improvviso Posidone, lo scacciò, e sposò egli la fanciulla, indicandole poi la fonte di Lerna».

Dei due versi che ci rimangono dell’Amímone, uno avrà certo appartenuto al satiro, che sembra spregiasse le raffinatezze della regale fanciulla. «Non so proprio che cosa farmene — pare dicesse —

        Dei tuoi profumi, della tua baccàride».

L’altro verso dice:

        Tu devi esser mia moglie, io tuo marito.

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Non si potrebbe decidere con sicurezza se abbia sapore serio oppur comico: poté quindi appartenere tanto al grottesco demonietto, quanto al potentissimo Dio del mare.

Questo Amímone poté dunque chiudere la tetralogia. E non vuol dire che svolgesse fatti anteriori a quelli della trilogia: era licenza piú che concessa al dramma satiresco.

***

Regna discordia fra i dotti intorno alla data delle Supplici. L’opinione vulgata, badando, cosí all’ingrosso, alla maggiore estensione della parte corale, alla semplicità dell’azione, all’uso di due soli attori, le considerava opera giovanile, certo la piú antica fra le tragedie superstiti. Altri, badando invece alla simpatia dimostrata per la città d’Argo, la collocherebbe intorno all’anno 461-60, quando fu stretta un’alleanza fra Argo ed Atene.

Ma non mi sembra che questa coincidenza storica valga di per sé sola a svalutar gli argomenti sui quali si fondava la più antica opinione. Il carattere arcaico delle Supplici è innegabile. Vero è che un artista può in qualunque momento della sua carriera, tornare, di proposito o inconsciamente, a forme del passato: cosí Euripide nelle Baccanti. Ma arcaismo non è, arcaicità; e un occhio esperto riconosce presto le opere arcaizzanti, presto scuopre, sotto la corteccia fosca e rugosa, il chiaro palpito della nuova linfa: come appunto avviene nelle Baccanti. Ma l’arcaicità delle Supplici è perfetta, compatta, senza la menoma incrinatura, nell’azione, nella lingua, nella psicologia. Per me basta quest’ultimo argomento. Se accettiamo la data del 461, Eschilo avrebbe avuto 64 anni. A 67 anni — qui abbiamo [p. 8 modifica]la data sicura — componeva poi l’Orestèa. Ora io non crederò mai che un drammaturgo, giunto sino ai 64 anni con una facoltà di scolpire, figure sceniche cosí limitata come quella che appare nelle Supplici, arrivasse poi in tre anni, e nella imminente decrepitudine, a sommità che nei secoli venturi doveva attingere il solo Shakespeare. Né si può supporre che Eschilo arcaicizzasse di proposito nel creare i personaggi; ché questa è facoltà connaturata via via con l’artista, e che nessun drammaturgo ha mai abdicata. Né si può invocare il quandoque dormitat per le Supplici, che mostrano in ogni parte pienezza d’ispirazione, e accuratezza di fattura: basterebbe la magnificenza delle parti corali.

Magnificenza che fu talora assunta a dimostrare la relativa modernità della tragedia, e che, secondo me, è invece una conferma della sua arcaicità. In tutta la parabola di sviluppo della tragedia greca, vediamo, come è noto, una costante diminuzione dell’importanza del coro1. L’opera di Eschilo è una parte di questa parabola, e si inquadra perfettamente nella sua sagoma. Naturale, quindi, che nei drammi più antichi appaia piú accurata la parte che per l’autore e per gli uditori aveva maggiore importanza.

Intendo bene che questi argomenti, anche se possono sembrare ben fondati, non saprebbero avere valore assoluto. Ma, per tornare donde movemmo, innegabile e perfetto è il carattere arcaico delle Supplici. Onde, se dell’opera eschilea vogliamo stabilire la cronologia ideale, che è poi la vera, e non di rado può discordare dalla cronologia [p. 9 modifica]reale, le Supplici devono occupare il primo posto. Esse ci presentano un Eschilo ancora sotto il pieno influsso della tradizione arcaica. Non solo per il poco rilievo delle figure sceniche, e per la prevalenza delle parti corali; ma anche per un altro fatto che non mi pare sia stato abbastanza rilevato: che, cioè, anche nella economia drammatica, il coro delle Danaidi è qui protagonista e i personaggi scenici — Danao, Pelasgo e il servo egizio — sono secondarî. Questa prevalenza assoluta del Coro ci fa risalire addirittura ai primordî del dramma; e non la troviamo piú mai negli altri drammi di Eschilo, neppure in quelli che dal Coro prendono il nome: I Persiani, Le Coefore, Le Eumenidi. In questi, come poi in tutti i drammi di Sofocle e di Euripide, il coro discende a un grado inferiore, per divenir talora quasi intruso.

Per le Supplici, dunque, piú che per verun altro dramma, bisogna ripetere quello che dicemmo a proposito di tutto il teatro di Eschilo. Piú che tragedia nel senso moderno, sono un grande oratorio. Nel mare della musica, ondeggiante ed estuante, gli episodî drammatici emergono come isole brevi. Questo deve sempre rammentare chi vuole formarsi una giusta idea, pronunciare un fondato giudizio.

Non però dovremo concludere che le Supplici fossero prive d’efficacia scenica. Il contrasto, vita d’ogni azione drammatica, anima tutti i suoi episodî, e, nella scena con l’araldo degli Egizî, giunge sino alla violenza. E l’arrivo delle fanciulle, poi quello di Pelasgo sul cocchio, a capo d’una schiera d’armati, l’arrivo dell’araldo egiziano seguíto da sgherri, e il loro urto con le schiere delle fanciulle, e poi con gli Argivi, sono situazioni suscettibili di grande effetto. E di grande effetto poterono anche essere la scena, [p. 10 modifica]che rappresentava un’accolta di altari sacri a varie divinità, in una località del suburbio d’Argo, e le vesti, nelle quali si vedevano mescolati — il testo ce ne dà l’imperativa indicazione — costumi argivi, costumi egiziani, costumi di negri.

E per tutti questi elementi, mi sembra si possa concludere sicuramente che questo antichissimo dramma, non solo dové suscitare l’interesse degli spettatori ellenici, ma potrebbe anche oggi, in una amorosa rievocazione, affrontare il cimento della scena.





Note

  1. Rimando al mio libro Il Teatro Greco.