Le strade ferrate italiane
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IL
POLITECNICO
REPERTORIO MENSILE
DI
STUDJ APPLICATI
ALLA
PROSPERITÁ E COLTURA SOCIALE
________
VOLUME X
La questione delle strade ferrate in Italia è, dopo quella dell’armamento, la più importante dell’attualità: è questione ad un tempo commerciale, industriale, politica e finanziaria. Le ferrovie, come le arterie in un corpo, espanderanno in tutte le parti del bel paese il succhio della vitalità, e ne cementeranno ed assimileranno le membra finora disgiunte, e viventi perciò una vita troppo torpida e lenta. Ma a cominciare dalle discussioni promosse dal bel libro di Petitti, che considerava il problema sotto un aspetto troppo parziale, e se ne faceva arma di guerra all’Austria, e scendendo sino al bel prodromo del ministro Jacini che ha motivato la creazione del nuovo Consiglio delle strade ferrate, nessuno ch’io sappia ha considerato l’argomento nella sua massima generalità, nessuno ha formulato un quadro complessivo di una buona rete, tale da soddisfare ai molti interessi e nazionali e locali; nessuno né ha misurato l’insieme, sia nel rapporto delle lunghezze degli sviluppi, sia nel rapporto complessivo della spesa e del modo di sopperirvi; e tuttavia incerti stanno gli economisti, nelle attuali condizioni ecomiche dell’Europa, intorno al miglior sistema da adottarsi dal Governo per la loro esecuzione e pel loro servizio.
Questo mio breve scritto ha per iscopo appunto tali generalità. È uno schizzo il quale, tenendo conto dello stato attuale delle strade ferrate italiane, cerca di raggrupparle, delineando d’ognuna lo scopo peculiare, e ne propone il completamento, suddividendole in categorie diverse a norma della loro importanza, e porta innanzi una opinione, che credo necessario, anzi urgente sia posta in discussione dalla publica stampa prima che i corpi deliberanti sieno chiamati a prendere una risoluzione; nulla più nuocendo alla costruzione di un bello e vasto edificio che l’eseguirlo a spizzico, senza prima essersi formato un piano complesso, sul quale lavorare con sicurezza e confidenza.
E qui è bene che il lettore sappia entro quali confini geografici si estenda il mio discorso, posciaché io intendo parlare non della Italia quale ora è costituita senza Roma e Venezia, ma della Italia vera dalle Alpi al mar Jonio, all’Adriatico ed all’Isonzo, quale in un avvenire più o meno remoto verrà costituita dai suoi gloriosi destini.
La configurazione della penisola, quanto bene si presta alle communicazioni maritime collo sviluppo comparativamente assai grande delle sue spiagge, altrettanto riesce disacconcia al tracciamento di una rete di strade ferrate eminentemente facile ed economica. La schiena dell’Apennino che, come una gran spina dorsale, si stende dal colle di Tenda giù fino alla punta di Reggio, e più oltre ancora, traversato lo stretto, si allunga fino al capo di Termini, erta, intricata, con diramazioni capricciose in varie e talora opposte direzioni, divide il bel paese, tanto nella parte continentale quanto nella parte insulare, in due lunghe zone, l’una delle quali versa le sue aque nell’Adriatico e nell’Jonio, e l’altra nel mar Tirreno. Il che rese e rende tuttavia difficili le communicazioni reciproche fra le zone stesse anche mediante le strade communi, ancora assai rare al bisogno, perchè ripide, tortuose e di grave dispendio sia pel primo impianto, sia per la successiva manutenzione. Così, mentre sarebbe bastata una sola gran via ferrata sull’asse della penisola, quasi una gran vertebra dalla quale come altrettante costole si staccassero le diramazioni alle principali città marittime, ove il terreno si fosse trovato piano o leggermente ondulato; ne sorge la necessità di due linee, una per versante, ciascuna delle quali non abbracci che una sola zona di territorio, ossia la metà del movimento che avrebbe alimentato una gran linea centrale, colla potente concorrenza della marina, e con poche e difficili linee trasversali dì reciproca communicazione.
Solo la gran valle del Po parrebbe prestarsi per la sua configurazione allo stendersi di una grande arteria ferrata, che ne abbracci tutti ì commerci e ne soddisfi i bisogni agricoli ed industriali. Ma qui pure la soverchia sua larghezza, dalle falde delle prealpi a quelle degli Apennini, e la difficoltà di traversare il Po, il cui largo e profondo alveo ne solca tutta la lunghezza, non permettono di pensare ad una sola linea principale, ma additano il bisogno di due linee parallele, seguenti l’una la sinistra e l’altra la destra del fiume, da traversarsi in varj punti principali per metterle in facile e pronta communicazione fra di loro.
Dalla valle del Po dovrebbero diramarsi anche le linee internazionali accennanti alla Francia, alla Svizzera, al Tirolo ed all’Austria, destinate a traversare faticosamente la gran catena delle Alpi ed a mettere in communicazione i nostri mari ed i nostri porti colla parte più mediterranea d’Europa.
In questo rapido schizzo sono abbozzate le direzioni delle grandi linee principali che servir devono l’Italia, ed alle quali tutte le altre devono subordinatamente collegarsi. Esse formano l’ossatura, dirò così, cardinale, alla cui esecuzione deve pensare direttamente lo Stato, comechè interessante i bisogni dell’intera penisola; mentre le linee di secondo e di terzo ordine, o non interessano che indirettamente la nazione, od interessano unicamente le varie regioni nelle quali suddividesi l’Italia. Queste linee principali possono distinguersi in tre grandi rami e in due grandi gruppi. Dei tre rami, l’uno scorre longitudinalmente la valle del Po, tra l’Alpe ed il fiume, facendo capo a Venezia; l’altro svolgesi al piede dell’Apennino, costeggiando, prima il Po, indi l’Adriatico e facendo capo ad Otranto; ed il terzo dal confine francese per Genova, Livorno, Roma e Napoli si allungherebbe oltre lo stretto a rannodare al continente Messina, Catania e Palermo. Dei due grandi gruppi, il primo servirebbe a collegare fra di loro di tratto in tratto gli accennati tre rami, ed il secondo alle communicazioni internazionali coi paesi oltrealpini.
Oramai è inutile l’argomentare intorno al miglior andamento della gran via della valle di Po, dacchè trovasi da alcuni anni ultimata ed esercita. È un fatto compiuto e di troppa rilevanza economica, per non doverlo accettare in tutta la sua estensione. Il tempo forse potrà rimediare allo sconcio di serpeggiamenti inutili od almeno perniciosi al grande commercio, quali le sinuosità di Santhià e di Bergamo. Dal confine francese al Moncenisio tra Modàne e Bardonnéche, proprio dal punto culminante intermedio del gran traforo dell’Alpe con tanto ardire intrapreso dal piccolo Piemonte, scende la ferrata per la tortuosa valle della Dora-Riparia con pendenze risentite da Susa fino a Torino. Di là procede in continua pianura fino a Venezia, toccando Vercelli, Novara, Milano, Brescia, Verona, Vicenza e Padova, e traversando la parie più ricca, più colta e più popolata del Piemonte, della Lombardia e del Veneto. Il suo sviluppo, ammessa la correzione della sinuosità di Bergamo colla sostituzione di una linea da Treviglio a Palazzolo, è di chilometri 497, dei quali la parte piemontese concessa alla Società Vittorio Emanuele è di chilometri 205, restando la residua parte di ragione della Società Lombardo-Veneta e dell’Italia Centrale.
Il secondo ramo o linea dell’Adriatico staccasi dal primo a Torino, spingesi ad Alessandria seguendo la valle del Tanaro tra i viniferi colli del Monferrato, per Tortona e Voghera giunge a Piacenza, segue la via Emilia per Parma, Reggio, Modena, Bologna, Faenza, Forlì, Rimini, Pesaro e Sinigaglia fino ad Ancona, Ivi, dopo girato a tergo il monte Conero, riprenderebbe la linea del mare per Pescara e Termoli e di là si spingerebbe a Foggia schivando il promontorio del Gargano d’onde per Barletta, Trani, Molfelta, Bari, Brindisi e Lecce, raggiungerebbe ad Otranto l’ultimo sperone d’Italia. La lunghezza di questo ramo, dstinato a vivificare la parte meridionale del Piemonte, l’Emilia, le Marche, gli Abruzzi, la Capitanata e le terre di Bari ed Otranto, sarà di circa 1175 chilometri, dei quali chilometri 192 da Torino per Alessandria al confine dell’Emilia di ragione dello Stato; chilometri 141 dal detto confine a Bologna di ragione delle Società Lombardo-Veneta e dell’Italia Centrale, e queste due tratte già compite ed in esercizio; chilometri 206 da Bologna ad Ancona, concesse alla società delle strade romane Mirès e compagni, ed in costruzione; ed il rimanente da Ancona ad Otranto, per chilometri 736, sta tuttavia in aspettazione di una governativa decisione, essendosi all’uopo fatte e promesse concessioni, che però non ebbero finora l’assenso nazionale, nè per riguardo alla linea da seguirsi, nè per riguardo alle condizioni del contratto.
Il ramo del Tirreno ha principio presso Ventimiglia al nuovo confine coll’impero Francese, percorre la riviera Ligure, costeggia il mare fino a Civitavecchia, d’onde piegasi sopra Roma. Da Roma girando dietro ai colli Albani si porta, per Ceprano e Capua, a Napoli e Salerno. Ivi staccasi ancora dal mare per spingersi nella valle del Sele fin presso Lagonegro, e svolgendosi fra le intricate diramazioni dei preapennini calabresi, raggiunge di nuovo la marina a Scalèa, per seguirla indi costantemente fino a Reggio con una sola sinuosità onde riunire Nicastro. Questo ramo, come vedesi, serve quanto è lunga la riviera Ligure, Massa, Pisa, Livorno e le maremme Toscane, Civitavecchia, Roma e la parte più ricca della Campagna romana, traversa la fertile terra di Lavoro, tocca Napoli, e quindi solca i Principati e le Calabrie. La sua approssimativa lunghezza è di chilometri 1373, dei quali circa 282 nella Liguria, in parte già costrutti (Voltri-Genova per chilometri 12) ed in parte di prossima costruzione a carico dello Stato; chilometri 316 in Toscana, pure in parte costrutti (Pisa-Livorno per chilometri 21) ed in parte concessi ed in corso di studio o di esecuzione; chilometri 92 da Civitavecchia a Roma e Frascati già in esercizio a cura di quella privata società; chilometri 169 da Frascati a Capua in costruzione a carico dello Stato; chilometri 99 da Capua per Napoli e Salerno quasi interamente ultimati, e chilometri 415 da Salerno a Reggio che fan parte del contratto Adami e Lemmi, mancante ancora della sanzione parlamentare, che ha per base la costruzione della strada a conto dello Stato. L’ossatura della Sicilia è formata dalla catena delle Madonie che da Messina a Trapani fronteggia la sua costa settentrionale in linea quasi retta, a metà lunghezza della quale diramasi una cresta secondaria, che serpeggiando discende lino a Noto a compiere la struttura triangolare dell’isola. Il monte Etna, più alto delle più elevate cime di queste catene, si alza maestoso ed isolato tra le due branche che si protendono verso levante. Questa singolare struttura dell’isola rende singolarmente arduo il problema della riunione più opportuna delle sue città principali, Messina, Catania e Palermo, senza trascurare né paesi interni, né le città di Siracusa Mazzara e Marsala, né uno sbocco nella costa meridionale di fronte all’Africa. La linea che ho tracciata, parte dal capo del Faro di contro a Scilla, dove l’arte non dispera di poter tentare l’ardito progetto di un ponte; scende lungo la marina all’unghia dell’Etna per Taormina a Catania; indi salendo le rive del fiume Simeto e del suo influente Viperino, varca il colle di Castro-Giovanni per portarsi nel dominio del fiume Grande sotto Caltanisetta. Rimonta poi la valle di detto fiume, sfora le Madonie un poco a levante di Petraglia, e raggiunto il Tirreno a Cefalù, si porta per Termini a metter capo a Palermo. Il suo sviluppo è di circa chilometri 335. Così comprendendo la linea sicula con quella del Tirreno di cui forma appendice, si avrà per questo ramo la lunghezza complessiva di circa chilometri 1708.
Ma questi tre grandi rami devono a vicenda collegarsi lungo la loro linea di sviluppo, per dare e ricevere vitalità, e per unire fra di loro i principali centri interni di popolazione e di ricchezza della penisola. Più frequenti saranno questi nodi, sarà meglio servito il paese. Se non che il gran fiume Po da valicare, e l’Apennino da sormontare o da sforare, presentano tali difficoltà d’arte, che, unite alle enormi spese che traggono con sé, ne avvertono di economizzarne possibilmente il numero. Io li avrei ridotti a sette, che sono i seguenti:
I. Tronco da Genova a Milano per Alessandria, Torre-Beretti, e Pavia. Questo tronco, mettendo in communicazione la città eminentemente commerciale colla città eminentemente agricola dell’Italia, lega ad un tempo fra di loro tutti e tre i rami cardinali sopra descritti in Alessandria, e si mette di là in diretta communicazione anche con Torino. Esso riesce lungo chilometri 173, di cui chilometri 97 da Genova a Torre Beretti, di ragione dello Stato e già in esercizio da alquanti anni, e chilometri 76 da Torre Beretti per Milano, concessi a privata società ed in corso di esecuzione.
II. Tronco da Piacenza a Milano per Lodi, lungo chilometri 65. Corre in perfetta pianura, passando il Po sotto Piacenza e servirà al commercio dell’Emilia e della Toscana colla Lombardia, la Svizzera e la Germania. Esso è in corso di costruzione ed appartiene alla società Lombardo-Veneta e dell’Italia Centrale.
III. Tronco da Bologna a Padova per Ferrara e Rovigo. Questo tronco traversa il suolo più ricco di grani della gran valle del Po, e serve a legare Venezia con Bologna, Ancona e Livorno. Valica il Po ad Occhiobello e l’Adige a Rovigo. La sua lunghezza è di chilometri 123, ed appartiene alla società Lombardo-Veneta e dell’Italia Centrale, la quale però non ne ha ancora intrapresi che gli studj preliminari.
IV. Tronco da Bologna a Pisa per Pistoja, Firenze ed Empoli. Passa l’Apennino per Val del Reno, sforandone il colle sotto la quindi Porretta, donde riesce a Pistoja per dirigersi sopra Firenze, e lungo l’Arno ad Empoli e Pisa. Esso serve per le communicazioni del centro della Toscana coi due rami dell’Adriatico e dei Tirreno, è lungo chilometri 191, e trovasi già in attività da Pistoja a Firenze e Pisa per un tratto di chilometri 105 concesso alla società delle strade toscane, ed in costruzione da Bologna a Pistoja per un tratto di chilometri 86 concesso alla società Lombardo-Veneta.
V. Tronco da Ancona a Roma. È legame essenziale tra le Marche, l’Emilia, il Veneto e la Lombardia colla capitale d’Italia. Esso diramasi tra Sinigaglia ed Ancona dalla linea dell’Adriatico, rimonta la valle dell’Esino per Jesi e Fabriano, sfora l’Apennino sotto Fossato per scendere sotto Nocera in val Tempino, progredisce per Foligno, Trevi, Spoleto, Terni e Narni fino allo incontro della Nera col Tevere, donde procede fino a Roma. La lunghezza di questo difficile tronco è di circa chilometri 270, e venne concesso alla compagnia Mirès e compagni, che da alcuni anni ne ha intrapresa l’esecuzione, la quale procede assai lentamente e stentatamente pei motivi che tutti sanno.
VI. Tronco da Napoli all’Adriatico. La linea proposta doveva staccarsi a Pescara, salire per la valle dell’Aterno fino a mezza via tra Aquila e Popoli, per raggiungere retrocedendo il lago di Fucino presso ad Avezzano, e scendendo pel Liri, congiungersi al ramo del Tirreno presso Ceprano. Questo sviluppo sarebbe di circa chilometri 185. Ma un’altra diramazione più breve e forse meno difficile e dispendiosa si presenta diramando il tronco dal ramo dell’Adriatico alla foce del Sangro tra Ortona ed il Vasto, sforando l’Apennino tra Castel di Sangro ed Isernia, e scendendo per la Val di Volturno a congiungersi col ramo del Tirreno a Teano. Questa seconda linea è lunga soli chilometri 144. Uno studio locale comparativo del terreno potrà determinare la preferenza da darsi sulla prima. Anche questo tronco è tra quelli concessi alla società Lahante, e compagni ed aspetta l’approvazione del Parlamento.
VII. Tronco da Napoli a Foggia. Sale il Volturno, tocca Benevento, fora l’Apennino sotto Castelfranco, e scende nei piani Apugliesi per unirsi a Foggia al ramo dell’Adriatico. Questo tronco importantissimo per il commercio di Napoli e Roma col levante e per gli interessi locali, perchè congiunge le due città più importanti del Napoletano, è lungo circa chilometri 135, ed è legato, credo, alla convenzione Adami e Lemmi.
A completare il novero delle linee nazionali resta il gruppo di quelle che pongono in diretta communicazione l’Italia coi paesi finitimi. Il tronco del Moncenisio facendo parte del ramo del Po già discorso, non occorre che ne facciamo soggetto di ulteriore esame. Resta a dirsi dei tronchi di communicazione da Milano alle Alpi Svizzere, da Verona alle Alpi Retiche e da Mestre all’Isonzo.
Pende ancora indecisa la questione, se pel primo tronco convenga raggiungere l’Alpe alla Spluga, oppure al Lucomagno, oppure al Gottardo, per portare il commercio del Mediterraneo e dell’Adriatico al centro dell’Europa, in concorrenza ai porti di Marsiglia e di Trieste. È impresa ad ogni modo ardua e che richiede il sacrificio di molti milioni per parte dell’Italia, sagrificio che non avrebbe forse sufficiente compenso nei vantaggi che ne trarrebbe il commercio interno, ma che, comunque grave, sarà sempre bene incontrato per l’incremento notevolissimo che ne avrebbe la marina italiana, la quale deve formare se non la prima, almeno una delle principali molle della nostra potenza esteriore. Qualunque sia il valico che sarà tentato, lo sviluppo di questa linea da Milano ai confini oscillerà fra i 160 ed i 180 chilometri, sia che da Milano per Como si segua rasentando il lago la linea più diretta dello Spluga, sia che da Milano per Como, Lugano e Bellinzona si volga al Lucomagno, sia finalmente che da Bellinzona seguendo la valle del Ticino dirigasi al passo del Gottardo. Di questo tronco, il tratto da Milano alla Camerlata presso Como, della lunghezza di 44 chilometri, è in esercizio da molti anni ed appartiene alla società Lombardo-Veneta e dell’Italia Centrale.
Il tronco da Verona alle Alpi Retiche segue fino a Bolzano con miti pendenze la val d’Adige, che ivi abbandona per spingersi nella valle dell’Isarco (Eisach) fino alla sua origine al Brennero. Questa linea, proseguita già al dilà delle Alpi da Innsbruck fino a Monaco, apre una larga vena di commercio a Venezia, a Livorno ed ai varj porti dell’Adriatico, e servirà efficacemente alle transazioni internazionali e di transito coll’Italia, di quella parte della popolosa ed industre zona della valle danubiana che non può con vantaggio venire servita dalle linee delle Alpi Elvetiche e di Trieste. Lo sviluppo di questo tronco nel versante meridionale è di chilometri 232, dei quali circa chilometri 100 stanno nel territorio del Tirolo italiano, ed il resto nel territorio del Tirolo tedesco che si stende al di quà delle Alpi fino a Salurno a poche miglia in su di Trento. Il tronco da Verona a Bolzano per chilometri 145 è già in esercizio; il resto fino al colle del Brennero, che per la poca sua elevazione sul livello del mare potrà valicarsi senza uopo di traforo della cresta, è ancora da eseguirsi; ma la Società Lombardo-Veneta che possiede tutta questa zona, si è obbligata alla sua esecuzione pel 1868, avendone già avuto il corrispettivo.
Finalmente il tronco da Mestre all’Isonzo, che tocca Treviso, Conegliano ed Udine, si ferma a Gorizia. Esso è lungo chilometri 174 e serve alle transazioni del Veneto colle provincie confinanti dell’Austria. È già in attività di servizio, ed appartiene alla più volte nominata Società Lombardo-Veneta e dell’Italia Centrale.
Riassumendo quindi, avremo uno sviluppo totale per queste linee nazionali come segue:
I. Linea del Pò | chil.
|
497
|
II. Linea dell’Adriatico | »
|
1175
|
III. Linea del Tirreno colla Sicilia | »
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1708
|
IV. Linee di congiunzione intermedie | »
|
1113
|
V. Linee internazionali | »
|
444
|
Totale Chilometri
|
4937
|
Il secondo tronco diramasi da Torre Beretti sulla linea principale tra Genova e Milano, e per Mortara e Novara si spinge fino ad Arona, mettendo in diretta communicazione Genova col lago Maggiore. La lunghezza di questo tronco è di chilometri 95; fu eseguito ed è esercitato dallo Stato e forma anello secondario fra le linee dell’Adriatico, del Pò ed Elvetiche.
Propongo per terzo tronco la linea da Pavia a Rovigo, toccando Casal Pusterlengo, Cremona, Mantova, Legnago, Badia e Lendinara. È questa una terza linea longitudinale nella valle del Po, diretta a favorire immensamente il movimento commerciale della parte più ricca di prodotti agricoli della Lombardia e del Veneto. Essa traverserebbe l’Adda a Pizzighettone, l’Oglio a Marcaria, il Mincio a Mantova e l’Adige a Legnago. La sua lunghezza sarebbe di circa chilometri 210, escluso il piccolo tronco da Casal Pusterlengo a Codogno che fa parte della linea Piacenza-Milano; ma essendo intieramente in pianura, riescirebbe di facile e poco dispendiosa costruzione.
Un’altra linea importantissima è quella dalla Spezia a Verona, per unire direttamente il Mediterraneo alla val d’Adige, al Tirolo ed alla Baviera. Diramandosi dalla linea ligustica fra la Spezia e Sarzana, e risalendo la Magra e la Vara, sì porterebbe a sforare l’Apennino presso Varese per discendere lungo la vallata del Taro fino a Parma. Di là si spingerebbe a Mantova, passando il Po a Casalmaggiore, e da Mantova salirebbe a Verona. Il suo sviluppo fu da me calcolato in chilometri 207, non compreso il tronco da Marcaria a Mantova già computato nella linea Pavia-Rovigo, e di esso trovansi in esercizio chilometri 37 tra Mantova e Verona in concessione alla società Lombardo-Veneta e dell’Italia Centrale.
Questa linea presenta è vero gravi difficoltà di esecuzione nella traversata dell’Apennino e nel ponte sul Po, ma lo sperabile beneficio che sarà per recare al commercio ed alla marina nostra è tale da farci incontrar volentieri il conveniente sagrificio di denaro.
Viene in quinta linea il tronco da Treviso a Trento, destinato da una parte ad accelerare il commercio tra Venezia ed il Tirolo, e dall’altra ad avvivare le grosse ed industri popolazioni di Castelfranco, Bassano e val di Brenta. Seguendo detta valle, che si innalza bastantemente facile sino al varco di Pergine, svilupperebbesi con uno svolto sulle falde di Gardolo per far capo alla stazione di Trento. Questo tronco sarebbe lungo chilometri 184.
Il tronco da Castel Bolognese a Ravenna, che terrebbe il sesto posto, è piano, facile e lungo chilometri 42. Oltre il soddisfare ai commodi locali della città di Lugo e Bagnocavallo, sussidierebbe il porto Corsini o di Ravenna, che si sta ampliando e rendendo capace del commercio di cabotaggio, e per la via di Bologna e Pistoja metterebbe nella più diretta communicazione l’Adriatico col Mediterraneo. Questo tronco fu da ultimo concesso alle società delle strade Romane Mirès e compagni, ma non venne ancora incominciato.
Vengono in seguito le linee Toscane, che procureranno a quel fortunato paese un grande sviluppo commerciale ed industriale. Esse sono tre. La prima da Pistoja per Pescia, Lucca e Pisa, pone ad un tempo in più diretta communicazione la parte settentrionale della Toscana colla capitale e col mare, ed abbrevia d’altra parte la linea diretta da Bologna a Livorno, dall’Adriatico al Tirreno. La sua lunghezza è di chilometri 53, e fu costruita e viene usufruttata dalla società delle strade ferrate Toscane. La seconda, risalendo la valle d’Arno fino ad Arezzo, percorre la val di Chiana, costeggia il lago Trasimeno e passando sotto Perugia ed Assisi termina presso Foligno, dove immettesi nel ramo di ferrovia nazionale diretto da Ancona a Roma; e questa pure, oltre favorire i grandi interessi locali di quella parte fiorentissima della Toscana e della capitale dell’Umbria, gioverà ad accorciare la via dal Veneto e dall’Emilia per Roma. La sua lunghezza è di chilometri 179, dei quali 40 già aperti e 79 in costruzione nell’interesse della società toscana, essendo il tronco cadente negli Stati ex-pontificj tuttavia nello stadio di semplice progetto. La terza linea finalmente diramandosi ad Empoli dalla ferrovia da Bologna al mar Tirreno, passa sotto Colle e Siena, entra nell’Umbria presso Chiusi, tocca Orvieto, e fa capo presso Otricoli oltre il Tevere nella via da Ancona a Roma, dopo una percorrenza di 216 chilometri, dei quali 131 da Empoli a Turrita sono già ultimati dalla società Toscana, ed il rimanente è ancora da fare. Questa linea ritrarrà la sua vita dal solo movimento locale.
Finalmente il decimo ed ultimo luogo nei tronchi di questa seconda categoria è riservato alla ferrovia dell’isola di Sardegna, che dipartendosi con un ramo da Porto-Torres per Sassari e con un altro da Terranova ed Oristano, metterà fine a Cagliari; e gioverà così, percorrendo l’isola in tutta la sua lunghezza di chilometri 227, al commercio locale ed allo sfogo delle ricche officine metallurgiche e dei produtti agricoli e pastorali dell’isola.
Il complesso quindi di queste ferrovie di secondo ordine verrà a sommare a chilometri 1505, e potranno eseguirsi tutte ad un binario solo colla più stretta economia.
Rimane ora a dirsi delle ferrovie regionali o di terzo ordine, di quelle cioè destinate a legare i centri secondarj delle varie regioni fra di loro, o colle linee principali o commerciali. Basterà per queste una semplice enumerazione distinta per regioni, non senza notare, esservene in esse alcune, massime nel Piemonte, che eseguite all’epoca della febbre per questo genere di speculazioni, non erano proprio indicate dalla importanza dei luoghi a cui toccano, le quali produssero un grave dissesto finanziario nelle provincie, nelle communi e nei privati che vi presero parte, e le quali saranno una continua fonte di perdite nel loro esercizio alla regione a cui devono venire accollate, come quella che unicamente ne trae vantaggio.
INDICAZIONE DELLE LINEE | ||||||
da costruirsi | già costrutte od in costruzione | parziali | totali | |||
I.° | PIEMONTE | a) Torino ― Pinerolo | ― | 38 | 38 | |
b) Fossano — Cuneo | ― | 26 | 26 | |||
c) Alessandria — Acqui | ― | 34 | 34 | |||
d) Valenza — Casale — Vercelli | ― | 42 | 42 | |||
e) Tortona — Novi | ― | 19 | 19 | |||
f) Chivasso — Ivrea | ― | 34 | 34 | |||
g) Santhià — Biella | ― | 30 | 30 | |||
h) Mortara — Vigevano | ― | 13 | 13 | |||
i) Savigliano — Saluzzo | ― | 16 | 16 | |||
j) Cavallermaggiore — Bra | ― | 13 | 13 | |||
265 | ||||||
II.° | LOMBARDIA | a) Milano — Sesto Calende | ― | 44 | 44 | |
b) Gallarate — Varese | 20 | ― | 20 | |||
c) Bergamo — Lecco | ― | 42 | 42 | |||
d) Monza — Calusco | 21 | ― | 21 | |||
e) Treviglio — Palazzolo per Bergamo | ― | 46 | 46 | |||
f) Cremona — Brescia | 49 | ― | 49 | |||
222 | ||||||
III.° | VENEZIA | a) Vicenza — Castelfranco | 33 | ― | 33 | |
b) Conegliano — Feltre — Belluno. | 92 | ― | 92 | |||
125 | ||||||
IV.° | TOSCANA | a) Moja di Volterra al mare | ― | 28 | 28 | |
b) Asciano — Grosseto | ― | 89 | 89 | |||
c) Montebamboli al mare | ― | 26 | 26 | |||
d) Carrara — Massa | 5 | ― | 5 | |||
148 | ||||||
V.° | ROMAGNA | a) Macerata al mare | 13 | ― | 13 | |
b) Fermo al mare | 10 | ― | 10 | |||
c) Ascoli al mare | 33 | ― | 33 | |||
d) Urbino — Pesaro | 42 | ― | 42 | |||
e) Terni — Rieti | 29 | ― | 29 | |||
f) Montefiascone — Viterbo — Mogliano | 48 | ― | 48 | |||
g) Roma — Tivoli | 30 | ― | 30 | |||
h) Frascati — Velletri | 26 | ― | 26 | |||
231 | ||||||
VI.° | NAPOLI | a) Chieti — Pescara | 16 | ― | 16 | |
b) Maddaloni — Salerno | ― | 54 | 54 | |||
c) Torre dell’Annunciata - Castellamare | ― | 8 | 8 | |||
d) Napoli — Pozzoli | 20 | ― | 20 | |||
e) Caggiano — Potenza | 43 | ― | 43 | |||
f) Brindisi — Taranto | 70 | ― | 70 | |||
g) Cosenza al mare | 42 | ― | 42 | |||
253 | ||||||
VII.° | SICILIA | a) Catania — Siracusa | 64 | ― | 64 | |
b) Caltanisetta — Licata | 60 | ― | 60 | |||
c) Palermo — Marsala | 98 | ― | 98 | |||
222 | ||||||
Totale | 1469 |
Ora abbordiamo la grande questione economica. Non è senza esitanza che io mi pongo in questo arringo con idee alquanto diverse da quelle finora accettate e poste in pratica dai grandi statisti nei paesi più avanzati nella civiltà. Ma io scrivendo di strade italiane debbo anzitutto tener computo delle peculiari condizioni del nostro Stato, ed adattare le mie proposte alla speciale situazione finanziaria e politica del paese, avendo di mira essenzialmente la soluzione pratica la più vantaggiosa e la più pronta.
Le ferrovie sono costrutte ed esercite o dal Governo, o da società private, alle quali il Governo soccorre, sia col fornire un proporzionato capitale perduto, od almeno non redimibile che all’avverarsi di date condizioni di prosperità dell’azienda, sia col garantire per un periodo d’anni più o meno grande, ordinariamente dai 90 ai 99, l’annuo prodotto dell’esercizio della strada, o sopra una somma capitale fissa, o sopra la somma eventuale di spesa effettiva di costruzione e di primo impianto; prodotto bastevole non solo a coprire l’interesse della somma capitale impegnata nella strada stessa, ma eziandio ad ammortizzare nel periodo degli anni di privilegio il capitale sborsato. Riserbandomi di parlare dappoi della convenienza o meno della diretta ingerenza governativa, e di additare le massime che meglio valgano a garantirne la migliore, più pronta e più economica esecuzione ed il più vantaggioso esercizio, dirò dapprima dei difetti che presentano le altre combinazioni, per pesarne la relativa convenienza.
Ho detto che il Governo può concedere una ferrovia fornendo alla società concessionaria un fondo capitale perso o redimibile solo dietro certe eventualità. Suppongasi un tronco di strada che costi cento milioni, e che il suo reddito netto presumibile, dopo trascorsi i primi anni di prova e di avviamento, dedotto dal paragone di altri tronchi in circostanze presso a poco consimili, possa valutarsi a soli annui quattro milioni. È naturale che la società chiederà che il Governo concorra alla concessione, per quella somma che rappresenta il capitale della differenza tra l’interesse commerciale ed il reddito probabile della strada, oltre una quota per titolo di ammortizzazione, che ordinariamente valutasi del due per mille all’anno. Così ammesso che l’interesse medio del denaro in giornata sia del sei per cento, chiederà lo sborso per parte del Governo di una somma corrispondente alle annualità di due milioni e duecento mila lire, ossia di un capitale di trentasei milioni e due terzi. Ma com’è naturale, i promotori della società, regolando il valore delle obbligazioni od azioni che dovranno emettere per far fronte alla spesa sul corso di consimili carte ora alquanto degradate nel mercato europeo, si troveranno costretti ad emettere i valori stessi ad un prezzo al disotto del nominale; e così tenendo fissa la cifra del dividendo, aumentare quella dei divisori, aumentare cioè l’importo nominale delle azioni ed obbligazioni fino alla concorrenza del bisogno per coprire la spesa reale della strada, in base al ribasso che simili valori soffrono in giornata sulle grandi Borse europee. E quindi ove il prodotto della ferrovia non superi rapidamente le previsioni, le relative azioni ed obbligazioni si manterranno continuamente al disotto del pari, aumentando lo scoraggiamento e la diffidenza già abbastanza viva per questo genere di speculazioni. Ma vi è di più. I promotori potendo difficilmente lucrare sulla emissione di azioni in ribasso, e volendo rendere fruttifero e largamente fruttifero l’affare, dovranno avvantaggiarsi sulle spese di costruzione e d’impianto, e quindi a scapito della solidità e della durata delle opere e delle provviste, la qual cosa importando un aumento successivo di spese di manutenzione, concorrerà ancora più al deprezzamento dei relativi valori ed alla conseguente diminuzione della ricchezza publica. Ora se a queste importanti ragioni militanti in disfavore di questa combinazione, si aggiunga la difficoltà gravissima di formarsi a priori una idea abbastanza esatta del costo dei lavori e del movimento presumibile di persone e di merci sulla linea, difficoltà che viene opportunamente usufruita dalle società concessionarie in appoggio alle loro pretese, si avrà una facile spiegazione del come questo sistema non venne addottato se non eccezionalmente in Francia ed in Prussia, più a titolo di anticipazione che di contratto a pura perdita.
Come dissi, il Governo può concedere l’esecuzione delle strade ferrate mediante garanzia di una rendita annua fissa, determinata in prevenzione, qualunque sia per risultare la spesa di costruzione. È questo il sistema sul quale è basata la concessione della ferrovia dell’Italia Centrale. Ma questo sistema trova uno scoglio gravissimo in ciò, che la società, alla quale, nel computo del produtto netto che deve formar base di confronto per l’eventuale sovvenzione annua governativa si deve tener credito di tutte le spese di manutenzione, è indotta a fare i massimi risparmj nelle spese di prima costruzione, risparmj che cadono a tutto aggravio dello Stato e del buon servizio publico. E qui pure i promotori, nella incertezza del costo primitivo e delle effettive spese annue, nel calcolare la garanzia fissa, non possono a meno di non esagerarne la portata onde garantire le proprie azioni da un troppo forte e sollecito ribasso, e procurarsi nello stesso tempo un buon capitale di utili per la loro industria personale.
A questo difetto rimedia il sistema di una rendita annuale da determinarsi a lavori e provviste capitali finite in ragione di un tanto per cento sulle spese effettive, come fu praticato per le linee Vittorio-Emanuele e Lombardo-Venete. Ma qui si corre un contrario rischio, ed è che gli agenti della società non sono frenati nelle spese talora pazze, sopra alcuna delle quali percepiscono una provvigione d’uso, ond’é che lo Stato si trova strascinato in impegni sproporzionati allo scopo. Siccome poi questo interesse viene d’ordinario limitato ad un minimo del 4 o del 5 per cento, così ne viene che, o la strada rende assai più di quella somma, e lo Stato avrebbe abbandonato nelle mani di privati speculatori una fonte di rendita talvolta abbastanza rilevante che avrebbe servito a neutralizzare le perdite probabili di altri tronchi meno produttivi, ma non meno necessarj; o rende assai meno, ed allora le azioni subirebbero un avvilimento proporzionatamente molto grande, e lo Stato costretto ad esercitare nella azienda un’attiva ed incommoda controlleria, si troverebbe alla fin fine indotto per lo suo meglio e per tranquillità dei suoi amministrati ad evocare a sé la speculazione, rimborsando gli interessati con tante carte publiche per diminuire così una causa di economica perturbazione nel paese.
D’altronde collo sconto attuale del denaro superiore al sei per cento, e col basso valore odierno delle carte publiche, non potrebbero farsi convenzioni di questa specie se non mediante l’assicurazione di un interesse assai grave, il che equivalerebbe alla rinuncia della eventualità di una più prospera condizione delle valute publiche, che è a prevedersi coll’assestamento degli attuali imbarazzi politici. Certo che dove il credito publico avesse a riprendere il suo naturale slancio, gran parte di queste difficoltà andrebbero a svanire, giacché i detentori del danaro lo investirebbero di preferenza nelle azioni ferroviarie, le quali assicurando loro un interesse pari a quello delle carte dello Stato, lasciano un margine aleatorio di qualche maggior frutto col crescere progressivo, che si vede verificarsi dappertutto, del prodotto delle ferrovie. Ma il bisogno delle strade ferrate è urgente, né il governo può, né deve attendere le eventualità più o meno lontane, e quindi più o meno incerte dell’avvenire.
Vi è poi un ostacolo che sovra gli altri giganteggia in questi affari, ed è la difficoltà o dirò meglio la impossibilità odierna di poter formare in Italia società abbastanza potenti da intraprendere speculazioni di tanta portata, con capitali proprj, fino a che non siasi fornito il paese di una Borsa così forte da potervi negoziare i valori nazionali senza dipendenza estera e colla facilità e prontezza indispensabile in simili sorta di transazioni. Ora finché non sarà riempiuto questo vuoto, né lo sarà così presto essendo il frutto di una posizione nazionale stabilita ed influente nel mondo commerciale, ad acquistar la quale dovrà sudare qualche generazione, posciachè per quanto rigogliosa ed intelligente sia la vitalità e materiale e morale del nostro bel paese, essa deve prima sanare i gravi sagrificj portati dalla sua rigenerazione; finché dico non sarà riempiuto questo vuoto, lo Stato dovrà sempre dipendere dalla bancocrazia estera, la quale raggruppata nelle mani dì pochi individui e padrona delle Borse di Parigi, di Londra e di Vienna, tenta di farsi un monopolio unico di tutte le ferrovie del continente Europeo, osteggiando con mezzi potenti ed invincibili il commercio dei valori non suoi, ovvero di società nelle quali essa non abbia la principale interessenza. Noi videmmo infatti la bancocrazia parigina nella Spagna, in Austria, nella Svizzera far deperire tutte le azioni di ferrovie per impadronirsene poscia a condizioni per sé vantaggiosissime e dannosissime ai primi concessionarj ed ai Governi, e testé far crollare clamorosamente una potenza che aveva ardito di sorgere e costituirsi senza il suo beneplacito, voglio dire la compagnia Mirès. Data quindi questa impossibilità di costituire nuove società sia nazionali, sia estere, senza la principale ingerenza dei grandi banchieri parigini, e dato il monopolio che ne viene di conseguenza, il nostro Governo se vorrà agire per concessioni nella costruzione delle nuove ferrovie, sia nell’uno che nell’altro dei tre sistemi testè sviluppati, si metterà nella condizione di riceverne i patti sempre duri, sepur talvolta non ascondano semi di future pretese.
Ed ammessa come innegabile questa necessaria dipendenza, chi non vede il pericolo a cui correrebbe incontro il Governo gettandovisi improvvidamente in braccio, e lasciando che queste associazioni estere, già padrone pur troppo delle nostre linee più facili e più proficue, si impadroniscano del rimanente? Ciò porterebbe per necessaria conseguenza la pressione in paese di una influenza straniera naturalmente sostenuta dalla diplomozia pei mezzi possenti di cui dispone; ciò la necessità di rinunciare alla concorrenza commerciale coi nostri vicini, dacché assicuratosi questa compagnia un prodotto sufficiente mediante le garanzie del Governo per le strade italiane, non è a dubitarsi che, per istinto patrio, essa non vorrà favorire con tutti i mezzi, che l’applicazione delle tariffe e l’interpretazione dei capitolati metterà a sua disposizione, il commercio in casa sua a danno del nostro. Supponiamo infatti che a questa associazione bancaria sia concessa la costruzione e l’esercizio della ferrovia attraverso alle Alpi Elvetiche, ideata appunto per attrarre nei porti italiani il commercio del Mediterraneo colla Germania Meridionale che ora si fa quasi esclusivamente per Marsiglia (e non potrà nella condizione attuale delle banche europee venire assunta che dall’uno o dall’altro dei membri di quella grande associazione bancaria, qualora non la eseguisca il Governo per conto proprio); è egli ammissibile che i nuovi proprietarj, i quali si saranno già accaparrata da noi sia una lauta sovvenzione, sia una garanzia di una lauta rendita annua, vorranno adoperare quest’arma per combattere le loro strade e la marina commerciale francese, e favorire all’incontro gli interessi per loro estranei e forse anche avversi di Genova e della marina italiana; o che non piuttosto cercheranno di eludere i patti, e deviare il commercio dalla nostra via?
Ben è vero che, ad ovviare questi inconvenienti; vengono sotto l’influenza governativa nominati i Consigli d’amministrazione delle diverse società. Ma questi Consigli all’atto pratico hanno ben poca influenza. E noi vediamo infatti nella Lombardo- Veneta e dell’Italia Centrale eletti a propugnare gli interessi del paese nel Consiglio di amministrazione della società uomini distinti per probità, per scienza e per zelo ed influenti per carica presso il Governo, ma troppo leggermente interessati nell’azienda e senza quella pratica esperienza in questo genere di negozj, da poter scoprire e sventare gli abusi che vi si potrebbero mettere contrarj al buon servizio publico ed al vero interesse del paese.
Ma, sento dire: concedendo la costruzione e l’esercizio delle nostre ferrovie agli esteri, noi otteniamo il doppio vantaggio di accelerarne la esecuzione e di attrarre in paese i capitali stranieri. In quanto alla prima parte di queste ragioni io non so veramente su quali basi sia appoggiata, dacchè vedo quanto poco abbia fatto in questi sei anni la società francese in Lombardia e nell’Italia Centrale, in continuo arretrato cogli obblighi assunti, e quanto pochissimo la società Mirès nelle Romagne. In quanto poi alla seconda parte, parmi che i capitali stranieri ad eque condizioni e forse per noi più vantaggiose accorrerebbero in paese qualora li chiamasse il Governo con larghe garanzie sulle strade stesse, come appunto le chiama al bisogno di prestiti per le altre necessità dello Stato.
Si dice ancora: il Governo emettendo nuove carte proprie e nella quantità necessaria per mandare a compimento in pochi anni tutta la gran rete ferroviaria bisognevole, porterà un maggior deprezzamento alle altre carte dello Stato già abbastanza depresse. Ma, risponderò io, e queste azioni ed obbligazioni sociali messe sul mercato europeo ad un interesse minimo, garantito dal Governo, non sono esse altrettante carte publiche che fanno viva e continua concorrenza alle obbligazioni dello Stato? Con questa differenza, che assorbiscono e dividono quell’utile annuo che sì verifica in alcuna di esse strade, utile il quale sarebbe passato ad impinguare le rendite dello Stato, quando lo Stato stesso si fosse procurato il denaro necessario per la costruzione loro ad un equo sconto; mentre così agendo, il Governo, col rinunciare alle eventualità attive, non si è riservato in realtà che di soddisfare le eventualità passive, con effettivo suo svantaggio. Da quel poco che rapidamente, come comportava la natura di uno scritto d’occasione, ho abozzato, e che non è che lo sviluppo logico di idee oramai entrate nella convinzione di molti dei nostri uomini tecnici e di banco, non è difficile l’arguire quale partito mi sia per suggerire al Governo per la realizzazione della gran rete delle vie ferrate Italiane. Esso è il partito cioè, che il Governo si faccia proprj questi poderosi mezzi di prosperità nazionale e di civilizzazione, costruendo esso stesso le ferrovie non ancora eseguite, ed incamerando quelle concesse a private Società. A questo modo, oltre allo escludere la preponderanza estera in casa propria, che pei colossali mezzi finanziar] dei quali dispone si può considerare quasi come uno Stato nello Stato, interessato a deprezzare i fondi publici per sostenere i proprj privati; il Governo avrà molta maggiore libertà d’azione nella scelta e nello andamento delle linee che potrà tracciare secondo l’interesse generale, anzichè secondo l’individuale; e se sarà trascinato a dei sacrificj annuali per le strade di piccolo movimento, potrà utilizzare dei vantaggi di quelle più attive, e lucrare gli aumenti progressivi che le ferrovie continuamente recano nei loro prodotti. E ne abbiamo una prova nella ferrovia dello Stato, la quale nel 1852 non rendeva lire ventimila annue lorde al chilometro, e quindi neppure il due per cento sul capitale impiegato, ed ora già tocca le lire 48 mila annue lorde pure per chilometro, compensando il cinque e mezzo per cento del capitale di costo ad onta delle gravi spese di costruzione e di esercizio portate dal passo dell’Apennino al giogo dei Giovi.
Due difetti principali si incolpano a questo sistema, e sono: prima che riesce più costoso nella costruzione, poi più inerte nell’esercizio. Gli ingegneri governativi, si dice, chiamati a progettare ed a costrurre a spese dello Stato, più badano al grandioso, al monumentale che all’economico: ad ottenere un bel rettilineo, un ardito viadotto, una elegante stazione che solletichino il loro amor proprio, non curano spese. Ed il fatto ha pur troppo provato nella generalità le sussistenze di questa grave accusa. Ma è nelle mani del Governo un modo semplice di spacciarsene. L’esempio ardito datone dal ministero per la costruzione della ferrovia Ligure è là per insegnarlo. Faccia egli eseguire un rilievo sommario ed un progetto riassuntivo della linea dal suo corpo del Genio civile, per averne le basi approssimative di sviluppo e di costo, e ne abbandoni quindi la esecuzione a corpo, per un prezzo determinato, sia chilometrico sia complessivo, all’industria privata da chiamarsi a gara publica, per grandi gruppi, onde eccitare e promuovere nel tempo stesso le grandi associazioni industriali, giovevolissime per mille rispetti allo Stato; e lasci alle stesse l’arbitrio di modificare la traccia primitiva entro certi limiti, onde trovare la linea che unisca possibilmente la massima economia di costruzione senza ledere la facilità del successivo esercizio, ed il Governo sarà tolto felicemente dall’impaccio della prima accusa.
Quanto alla seconda, si dice: l’impiegato publico a stipendio fisso, disinteressato negli utili della propria amministrazione, è tratto in generale e per forza dell’umana natura a cercare più volontieri le proprie commodità che non i vantaggi effettivi dello Stato, nè si affanna quindi a speculare sia nell’esattezza del servizio, sia nelle combinazioni degli orarj e delle tariffe, sia nella economia delle spese di trazione e di manutenzione del materiale sia mobile che fisso, sicuro che tali speculazioni incommodando altri senza un proprio materiale compenso, non gli porterebbero che la certezza di dispiaceri ed una sterile soddisfazione di amor proprio. E questo cancro dell’apatia, che fortunatamente è meno sensibile fra noi per l’insita generosità degli animi, è quello che produsse la rovina delle strade austriache, e che ne forzò la vendita a quelle magre condizioni che tutti sanno. Ma anche a questo inconveniente è facile ed ovvio il rimedio, mediante l’appalto dell’esercizio e della manutenzione a private Società, dividendo le linee in varj gruppi dai 200 ai 500 chilometri, appalto da rinnovarsi da dieci in dieci anni, onde approfittare del naturale incremento dei prodotti delle ferrovie. L’operazione dell’appalto dell’esercizio e della manutenzione qui suggerito non richiedendo l’impiego di troppo potenti capitali, potrà trovare in paese molti concorrenti, ed aprire anzi un nuovo ramo alla speculazione ed all’industria indigena; e gli appaltatori, interessati personalmente a far fruttare il più possibile i loro tronchi, non trascureranno studio per aumentarne i prodotti, sia nel regolare le tariffe e gli orarj, sia nell’approfitare delle occasioni locali di movimenti di persone e nel crearne di nuove, sia nell’organizzare corse di piacere, il che alla fin fine tornerebbe pure a tutto utile del publico servizio. A questo modo anche le strade ferrate verrebbero amministrate come le strade communi, costrutte per appalto a spese dello Stato, e per appalto mantenute in buona condizione.
Determinato così il modo più acconcio di costruzione e di esercizio delle ferrovie, resta ora a dire del come procurarsi i mezzi colossali per mandare ad effetto il grandioso piano. Dovrà lo Stato, dovranno le regioni caricare la somma annua bisognevole, aggravando dell’occorrente le imposte ordinarie pei periodo d’anni necessario al completamento della gran rete ed al riscatto delle linee già concesse (giacchè la misura dovendo essere generale e radicale, deve comprendere anche le stesse); ovvero dovrà sottoporsi a nuovi prestiti? e questi dovranno eseguirsi sotto forma di rendita inscrivibile nel gran libro generale del debito publico, senza distinzione dell’altra già inscritta ed emessa per titoli diversi, o dovrà avere titoli a parte con separate condizioni di interessi e di ammortizzazione?
Io credo bene che l’Italia avrebbe abbastanza vigore interno da poter sopportare la grave spesa annua necessaria a compiere la gran rete in un breve periodo di anni, aumentando proporzionatamente le imposte, senza ricorrere a nuovi prestiti; ma non credo opportuno il disanguarla per questo titolo, benchè vitale in questo momento in cui ha duopo di tenersi forte ed organizzarsi militarmente per poter raggiungere al più presto la potente robustezza di una grande nazione. Credo quindi indispensabile il ricorrere alla via dei prestiti, e legare a questa grande opera di rigenerazione i figli e nepoti nostri, destinati ad usufruirne tutti i vantaggi. Ma il bisogno di questa ingente somma, essendo da una parte urgente e dall’altra parte avendo un termine determinato, e potendosi quindi di questa grande azienda formare un ramo affatto separato e non confondibile colle altre amministrazioni dello Stato, con una propria gestione ed un proprio budget, io credo che si potrebbero creare ed emettere appositi titoli, ammortizzabili in un prefinito numero di anni, come ha saviamente praticato il Governo toscano per la via Maremmana. Questi titoli od obbligazioni, da emettersi di mano in mano, fruttar dovrebbero l’interesse medio mercantile del sei per cento, ed ammortizzarsi con un capitale corrispondente invece al cento per cinque, onde offrire ai capitalisti uno stimolo al loro aquisto e facilitarne lo smercio, al quale dovrebbero essere interessate le banche publiche ed i più influenti capitalisti d’Europa. Il produtto netto annuo delle strade, dovrebbe anzitutto servire agli interessi ed alla ammortizzazione di queste obbligazioni, supplendo colle rendite ordinarie lo Stato a quante fosse per mancare. La publicità dei rendiconti annui in tutte le più minute particolarità statistiche, sull’esempio del Governo prussiano, nel mentre porgerà le più ampie soddisfazioni agli interessati, e sosterrà vivo il credito delle obbligazioni, sarà stimolo di zelo e di attività agli impiegati della azienda, la quale dovrebbe essere controllata annualmente da una commissione eletta dal Parlamento.
Abbiamo veduto che l’importo totale delle linee da noi progettate e che devono formare la rete completa delle ferrovie italiane ammonta alla somma di circa due miliardi e mezzo, comprese quelle di già costrutte e concesse a private società. Abbiamo veduto che queste ultime importeranno circa mille e venticinque milioni, e che quelle di ragione dello Stato importano altri cento sessanta milioni, e che per conseguenza il dispendio occorrente per le linee tuttora scoperte, residua a mille e trecento quarantadue milioni. Ora se noi rimettiamo l’incameramento delle linee concesse dopo effettuate quelle tuttavia scoperte, e se noi ci proponiamo di emettere un annuo capitale di sessanta milioni, potremo avere ultimata la gran rete in ventitre anni, e ricuperare tutte le linee concesse in altri diciasette anni; e così nel periodo non lungo di quarant’anni, lo Stato potrà diventare padrone di tutte le ferrovie della penisola, com’è padrone delle strade communi, dei canali, dei telegrafi, di tutti infine gli organi produttori e trasmissori della gran machina della prosperità industriale e commerciale del paese.
Questa grande operazione finanziaria porterà certamente, per un periodo forse lungo di anni, la necessità allo Stato dello sborso annuo della differenza tra l’effettivo produtto delle ferrovie e l’interesse delle somme in esse impegnate, e questo impegno che si potrebbe calcolare in media all’uno e mezzo per cento sulla somma capitale, importerà quindi a rete compiuta un annuo onere di circa quaranta milioni al budget. Questo onere però che andrà in seguito man mano diminuendo col crescere continuo e regolare dei frutti delle ferrovie, sarà fonte incalcolabile di molteplici vantaggi, che indirettamente e ad usura compenseranno l’erario dell’apparente sacrificio.