Le smanie per la villeggiatura/Nota storica

Nota storica

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Atto III
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NOTA STORICA

«In questi giorni» annotava Gioachin Burani pel mese di settembre nel suo Giornale solario del 1795 «per quanto intesi nella mia prima gioventù da mia avola materna, allor quando essa era giovane la sua casa era affaccendata, e così parimenti molte altre famiglie del suo rango, a prepararsi alla villeggiatura, e le sue faccende consistevano nel preparare per la biancheria, per fare il bucato, e così pure in accomodare li vecchi vestiti per usarli in campagna, provveder cappelli di paglia, volanti bocchie, zoni, trottoli ed il gioco dell’oca per divertirsi con le visite del suo ordine, che in campagna andavano a ritrovarle facendole accetto con il rinfresco di un bicchiere di vino dolce nuovo, non essendo in allora l’uso di bevere il caffè ridotto in carbone. Le sere di buon tempo ritrovandosi in villa si portavano alla conversazione in quelle massarie dove li contadini si riducevano a filò godendo con piacere quelle favolette raccontate da quei rustici giovinotti, quelle vilotte cantate da quelle semplici pastorelle, accompagnate dal suono di qualche colascione e da qualche piombè. con infinito piacere di tutti gli astanti... Questo è quanto s’accostumava nel secolo passato e nel principio del secolo presente. Chi desidera sapere quel che si accostumava circa l’anno 1760 potrà leggere le commedie del dottor Carlo Goldoni, cioè le Smanie per la villeggiatura, la Villeggiatura, l’Apparecchio alla Villeggiatura ed il Ritorno dalla villeggiatura» (Venezia, Da Simon Cordella a S. Giovanni in Bragora, MDCCXCV, p. 9).

Il rimpianto del Burani par l’eco dei pochi personaggi goldoniani, che, fautori del buon costume antico, sanno, se energici come Geronimo ne’ Malcontenti, resistere, o, deboli come il nostro Filippo, vanno travolti dalla corrente. Dunque non più giubboni di panno, gambiere di lana, scarpe grosse, ma ricche velade, polverine, scarpini con le fibbie di brilli e calzolini di seta. Per le donne la moda più recente, s’intende: quel tale mariage p. e. che mette fuor di cervello Vittoria e Giacinta. Altro che vestiti vecchi da portare proprio m campagna, come Geronimo voleva! Più non serve ammonire: «quando si va in campagna, si va per risparmiarli i vestiti, non per farne de’ nuovi», e ancora: «Chi volesse secondare i cari figlioli, andrebbe a mangiar in un mese in villa quello che basta quattro mesi in città». No, assennato Geronimo, più non si va «a goder la campagna», ma ben altro. Dopo le pazze spese in città ne’ preparativi della villeggiatura, il lusso si spiega subito nello sfoggio di burchielli e cocchi per arrivarvi. Nè gli svaghi son più trottole, zoni e il giuoco dell’oca, ma il faraone e la bassetta; nè più villotte s’accordano a colascioni e piombè, ma musiche e canti d’artisti eccellenti dall’ugola d’oro. Troppo magro rinfresco ormai un bicchiere di vin dolce. Vi son tavole [p. 88 modifica]copiosamente imbandite a tutte l’ore. Le ville non sono più modesti caseggiati costruiti e arredati proprio e solo pel ristoro dell’anima e del corpo. Sorgono lungo la Brenta, lungo il Terraglio, sontuosi palazzi che costano talvolta oltre un milione di ducati d’argento. Architetture, affreschi, bronzi, tutto d’artefici eminenti. Nei giardini piante rarissime di serra, o, artificiosamente composte e tagliate, all’aperto; giuochi d’acque, statue, uccelliere gremite di volatili superbi. Gare tra villa e villa nel trarre a sè il maggior numero di ospiti e i nomi più sonori. Chi men può, s’ingegna di seguire gli altri, e i piaceri in mezzo al verde si scontano con mille stenti e vergogne in città.

Carlo Goldoni avrebbe conosciuto, assicura, le delizie della villeggiatura già bambino, in riva al Sile, con quel nonno che i documenti fanno morto prima che egli nascesse. Certo più tardi ebbe occasione di gustarle nelle ville d’amici e mecenati. Come a Bagnoli in quel di Padova l’anno 1754, ospite di Ludovico Vidiman. Di tal soggiorno si fa simpatica menzione nelle Memorie (P. II, cap. XXVI) e nelle ottave del Pellegrino. Egli che aveva recato già più volte sulla scena vita campestre e villeggiature — nel Prodigo con intenzioni di satira, — godeva sì come gli altri, ma più degli altri, conforme l’abito suo, osservava. Acquistano così nella sua fantasia forma e colore nuove composizioni, quali i Malcontenti, la Villeggiatura. Dalla tela dei Malcontenti nasce e si svolge più tardi tutta una trilogia, leggiadra e pungente epopea degli spassi villerecci de’ Veneziani. Ai nobili però la critica comodava solo se esercitata su «zente ordenaria». Sulla propria pelle no. E quelle due commedie aveano ferito più d’uno. Si diceva: «No sta ben de publicar certi costumi a suon de campanela» (Componimenti diversi, Venezia, 1761, I, p. 159). Ma a buon conto solo nel Prodigo la scena è proprio sulla Brenta. Non danno recapito alcuno i personaggi della Villeggiatura. I malcontenti smaniano a Milano; quelli della trilogia a Livorno, e la villeggiatura è in quei pressi: a Montenero.

Tolto il particolare tutto esteriore del luogo d’azione, il Goldoni fu anche nella trilogia dipintore fedelissimo del costume veneziano e se ne convince chi veda ciò che degli ozi campestri scrive Pompeo Molmenti, lo storico geniale della vita dei Veneziani, così nell’opera sua maggiore (Storia della vita privata de’ Veneziani, Bergamo, 1913, vol. III, cap. VII) come in un saggio speciale (Le Villeggiature, ed. Rasi, 1909), e sarà tutta a gloria del Nostro la prova. Utili raffronti col Goldoni forniscono anche certe piacevoli pagine del Longo (Memorie scritte e pubblicate per umiltà, vol. I, cap. XII, XIII), un brillante articolo di Sordello [Dino Mantovani], Capitan Fracassa, Roma, 18 settembre 1887), il garbato sermone di Gaspare Gozzi Del villeggiare, un capitolo di Giulio Trento (La Villeggiatura, Treviso, 1795), e del Lamberti prose e poesie (Le quattro stagioni, Giornate cittadine e campestri e Memorie (manoscritto della Marciana). Aggiungi ancora qualche saporoso verso d’ignoto (A. Pilot, in Fanfulla della domenica, 28 dicembre 1913).

La commedia dei Malcontenti s’era rappresentata una volta soltanto e neanche a Venezia. Eppure, avverte l’autore nella Premessa, l’argomento poteva essere «utile molto alla società, prendendo di mira un pregiudizio, che tanto si è dilatato» (vol. XII, pag. 229). Tornò, meglio armato, alla carica sei anni dopo. Fu così che nell’Introduzione alle recite autunnali del 1761 al San Luca [p. 89 modifica]la Bresciani potè annunciare al pubblico (v.: Gazzella Veneta del 7 ottobre 1761):

          Tre Commedie ha formate un sol pensiero.
          Di cui presti ad espor la prima siamo.
          Vien l’argomento da lontan sentiero,
          Ma qualch’esempio fra di noi veggiamo
          Di smanie, che più d’uno a delirare
          Guidano, pel desio di villeggiare.
               Smanie per noi funeste e perniziose.
          Solite a spopolar mezzo il paese.
          Per cui recite abbiam calamitose
          E siam costretti a tollerarle un mese...

Non crede Marietta Ortiz che un sol pensiero abbia formato le tre Commedie. La prima le sembra concepita indipendentemente dalle altre (Commedie esotiche del G., Rivista Teatrale italiana, Napoli, 1905, pag. 51 [Estr.]). E solo la sempre vigile prudenza goldoniana, s’è visto, fa derivare l’argomento da lontan sentiero. Alle smanie Venezia non forniva soltanto qualch’esempio ma era «principalmente» là che «queste smanie, queste avventure e questi rimpianti offrivano soggetto degno di commedia» (Memorie, P. II, cap. XXVI). Il Targioni-Tozzetti mostrò con minute analisi quali strette affinità corrano tra le Smanie e ì Malcontenti, commedia nella massima parte della sua favola pervasa tutta da invidie e gelosie femminili per uomini e cose, da lotte con creditori impazienti e dalle improntitudini di esosi scrocconi. Anche gl’interlocutori si corrispondono quasi tutti: Giacinta (Felicita), Vittoria (Leonide), Leonardo (Ridolfo), Ferdinando (Roccolino), Brigida (Grilletta), Paolo (Cricca) (ed. Rasi, pp. LXI-LXXVI). Ma questa volta, pur a traverso cento difficoltà, s’arriva finalmente alla meta agognata. Soluzione onde han poi vita le Avventure e il Ritorno.

Trama più sottile che in queste Smanie non si da. Si va o non si va in campagna? Nient’altro. Trama sì tenue che al terz’atto il ripetersi di sempre uguali contrattempi stanca gli spettatori — osserva giustamente un critico dei nostri giorni (G. Damerini nella Gazz. di Venezia, 15 genn. 1907) — e anche nel dialogo è meno venustà e freschezza che ne’ due primi. Non commedia d’intreccio, ma di costume, e nelle parti sue più felici commedia di carattere. Non bastano a ciò le figure di Giacinta e Filippo? Tutti lodano e citano la grande scena tra le due amiche. Primo l’autore. «La scene est plaisante; e est un tableau d’après nature de la jalousie des femmes, et de la haine deguisèe» (Memorie, ed. Mazzoni, voi. II, p. 56). Ma in nulla inferiore per genuina comicità appare l’altra, che la precede, tra babbo e figliola. Come a traverso cristallo purissimo si delineano e spiccano nel dialogo due nature: la fiacchezza di Filippo, composta tutta di bontà prima per la figlia e un po’ per tutto il mondo — e l’energia della furba Giacinta che fa fare il babbo a modo suo pur sotto apparenza d’ubbidirgli. Carattere reso forte dal più sereno egoismo. Al suo affetto per Leonardo poco crede Brigida, e meno il pubblico. Ma queste ragazze goldoniane, tranne rare eccezioni, son tutte così: Giacinta, Vittoria («non veggo l’ora di maritarmi; niente per altro, che per poter fare a mio modo»), e innumeri compagne. Anche così le preferiamo agli uomini quando, come Leonardo, sien mossi solo dalla vanità e dall’interesse. Il valore della [p. 90 modifica]sposa s’esaurisce per loro nell’importo della dote, e guest’importo s’esagera fantasticamente quando con la voce dell’oro si voglia legare a se la servitù che minaccia di lasciare la casa in rovina. L’interesse guida tutti e tutto. Di parenti, da cui si spera ereditare, discorrono col disamore più volgare. Ben s’intende come in mezzo a tal gente viva e prosperi un Don Marzio redivivo, ribattezzato da Brigida, per un difetto di più, cavalier del dente... Mondo corrotto e corruttore, contro il quale lottano inutilmente il buon senso popolano d’un camenere e la saggezza borghese di Fulgenzio. Erano tristi, incresciosi i soggetti che il poeta realista ritraeva, ma la bonaria e fine sua arguzia ne mitiga il disgusto e costringe chi ascolta al sorriso. «Rideva dei vizi, ma senza quella malignità che ci fa ribellare, bensì con un palpito di bontà, quasi paternamente...» (Pellizzaro, La vita e le opere di C. G., Livorno, 1914, p. 48).

Buona parte dei critici goldoniani, vecchi e nuovi, esalta questa trilogia tra i prodotti più felici del Nostro. Così il Prölss (Gesch. d. neueren Dramas, 1881), C. M. Phillimore (Studi di letterat. ital., 1900). il Masi (Lettere di C. G., 1880, p. 52), il Malamani (Nuovi appunti ecc., Venezia, 1887, p. 41), Ferdinando Martini (Pagine raccolte, 1912, p. 25), il Magnanelli (Studio della vita, dell’indole e delle opere di C. G., Foligno, 1909, p. 27), il Del Cerro (Nel regno delle maschere, Napoli, 1914, p. 342), Dino Provenzal (Dizionarietto degli scrittori italiani, Livorno, 1914, p. 47). Insieme ad altre, le migliori del Goldoni, queste tre della Villeggiatura — scrive il Ciampi — sono «gemme si splendide che non temono paragone di bellezza sia con antichi sia con moderni autori» (La commedia italiana, 1880, pp. 234, 235), e il Caprin: «deliziosa trilogia della Villeggiatura» (C. G. La sua vita. Le sue opere, Milano, 1907, p. 301), il Giovagnoli: «le tre stupende commedie della villeggiatura» (Carlo Goldoni, Roma, Tonno, 1890, p. 3), il Targioni-Tozzetti: «tra le più perfette cose del Goldoni» (Le Villeggiature. Firenze, editore L. Rasi, 1911, p. LXXXII), Federico Pellegrini: «l’immortale trilogia» (Gaspare Gozzi, Venezia, 1913, p. 37), Domenico Oliva: «divina trilogia» (Note di uno spettatore, Bologna [1911], p. 6), Antonio Pilot: «mirabile trilogia» (artic. cit.). Comprende il Meneghezzi queste Villeggiature tra i quadri della umana società più «vivamente dipinti» (Della vita e delle opere di C. G., Mil., 1827, p. 119). Con magniloquente metafora Leopoldo Klein le scorge «tra i frutti d’oro che il Goldoni versò dalla sua cornucopia» (Gesch. d. ital Drama’s, 1860, vol. VI, p. 455), e il Royer avverte: «Les meilleures comèdies de Goldoni dans ce genre de reproductions des moeurs locales sont ses quatre pièces sur la manie des Italiens du XVIII siècle pour la villegiature» (Hist. univ. du thèatre, Paris, 1870, vol., IV, p. 290), ma male gliene incoglie che il nostro Carrera, di tutt’altro parere sembra, gli rinfaccia questa sua lode come «una delle cento corbellerie da lui affastellate sul teatro italiano» (C. G. a Torino, 1886, p. 24). «Piacevolissime le Villeggiature» nota il Sismondi. Il ridicolo dell’ostentazione gli par colto ottimamente. Si meraviglia però il fegatoso storico ginevrino che «in un paese dove si mette così poco studio a comparir stimabili agli occhi altrui (!), tanto se ne metta a parer ricchi» (Trattato della letteratura italiana ecc., Milano, 1820, vol. II, p. 135).

La vita che palpita in questa quasi «epica» trilogia ispira a Vernon Lee una deliziosa visione, della quale mi piace animare questa nota: [p. 91 modifica]

«Villeggiatura! parola magica che ora vuol dire solitudine in una casa di campagna o vita di città in un sito d’acque, ma che pur evoca sempre alla mente nostra grazie al genio del Goldoni, l’idea di quelle immense brigate di cinque o sei famiglie riunite sulla cima d’una collina o sulle rive di un fiume per vivere di continuo gli uni in casa degli altri e giocare, mangiare e bere, ed il canto e le danze, l’amore e le chiacchiere, e sprecare in un mese il reddito d’un anno; villeggiatura! deliziosa pastorale fra le piogge d’autunno, le inondazioni, la mota, le zanzare, il fogliame giallo appassito, pagata poi caro con un inverno senza fuochi e senza tappeti o con un’estate soffocata tra le mura della città. Sì, la parola serba ancora un po’ di nitore, qualche allettamento, e non possiamo passare avanti ai rugginosi cancelli dei melanconici giardini suburbani dai boschetti cadenti, dalle statue, dai vasi di terra spezzati, nè percorrere le lunghe gradinate delle case macchiate dall’umido, colle imposte sconnesse, gli scudi anneriti, la meridiana sbiadita e i fiori dozzinali bagnati dall’autunno, senza pensare ai Pantaloni, alle Rosaure, ai Leandri, dei quali eran diletto in quei giorni lontani. E quando entriamo in quelle vaste sale mezzo deserte di mobilio, coi seggioloni dorati disposti lungo le pareti e tavolini da giuoco in ogni angolo, ci par di udire Giacinta e Lelio che bisbigliano dietro il paravento, il parassito Ferdinando che mescola le carte sulla verde bajetta, e s’aspetta da un momento all’altro che dai battenti dorati della porta esca fuori quel giovialone del signor Filippo, in brache, in giubba trapunta e in parrucchino, raggiante di vanità e di piacere, pescando nella scatola e sclamando: «Animo, ragazzi! nessuno giuoca? non si mangia? non si beve? La villeggiatura è fatta per divertirsi, e in casa mia non deve mancare il divertimento. Presto! carte e lumi! e cioccolatte e limonata; poi si chiamino i sonatori e si ballerà un paio di minuetti, e chi non vuole, s’accomodi, ciascuno faccia ciò che gli aggrada! Viva la libertà e viva la villeggiatura!» (Il settecento in Italia, Milano, vol. II, pp. 200-270).

Come brio e verità di dialoghi e scene mal dissimulino la soverchia tenuità della tela rileva, pur lodando, il Chatfield-Taylor: «Benchè l’atmosfera in questa trilogia sia deliziosamente serena, resta, ne’ caratteri e per la storia, men felice della Villeggiatura. Vediamo un’elegante brigata apparecchiarsi per la campagna; li vediamo nelle loro ville giocare al faraone — il bridge di quei giorni —; da ultimo li ritroviamo in città dopo aver sprecato in un mese di spassi lussuosi il reddito di tutto un anno: però la sostanza drammatica della trilogia basta appena per una singola commedia. In verità, i faticosi sforzi d’una dama corta a quattrini per costringere un sarto a finire un abito, detto mariagele dernier cri de Paris —, in tempo per gareggiare d’eleganza con una rivale ch’ella invidia e odia; il giuoco, la conversazione, la tavola e l’amore durante una villeggiatura presso Livorno — posto più discreto per satireggiare la società veneziana che non le rive del Brenta; i pettegolezzi dei domestici sul conto de padroni; la furfanteria di un paio di camerieri di locanda; e i lazzi d’un ingordo spaccone e parassita di nome Ferdinando son tutte cose più divertenti che la trama sottile offerta da un poco interessante quartetto di innamorati attraverso tre commedie che ben potevano condensarsi in soli tre atti» (Goldoni, a biography, New York, 1913, p. 259). [p. 92 modifica]

Delle tre «la più allegra e movimentata è quella dal titolo Le smanie» scrive Giulio Piazza (Piccolo, Trieste, 2 febbr. 1911). Allegria e movimento che sono tutto ne’ dialoghi perchè, avverte giustamente anche il Mathar, «questo lavoro non ha quasi punta azione» (C. G. auf dem deutschen Theater des XVIII. Jahrh., Montjoie, MCMX, pp. 204, 205). E l’Ortolani: «Sorridono i dialoghi e circolano senz’altra azione» (Della vita e dell’arte di C. G., Venezia, 1907, p. 114). La naturalezza del dialogo — giudica il De Vico — è quale «si può udire anche oggi in qualche famiglia borghese» (Per un parallelo letterario mal fatto, 1913, p. 207). «Non si danno forse azione e intreccio più semplici — giudica un buon critico olandese — eppure la commedia è attraente dal principio alla fine, grazie al disegno, vivo ed esatto, dei caratteri e alle comicissime scene che rappresentano le preoccupazioni e i disgusti per gli sperati diletti della villeggiatura» (Kok, C. G. en bel italiaansche Blijspel, 1875, p. 112).

Se allo Schmidbauer sembra che in questa commedia «finalmente la satira goldoniana acquisti un carattere più serio» e diventi «satira sociale», (Das Komische bei G., Mùnchen, 1906, p. 138) al Ruth, uno de’ critici tedeschi che meno compresero il Nostro, parve proprio il contrario. «Queste tre commedie — scriv’egli — avrebbero ad essere una satira della mania del lusso, dei piaceri, dell’ozio e della millanteria, ma poichè tutti i personaggi ti danno allo stesso modo un senso di vuoto e di noia, non essendoci il contrasto di qualche individuo sopportabile e la spregevole natura umana apparendo descritta senza un minimo di malizia, è ben difficile persuadersi d’una intenzione di satira» (Über Goldoni. Literarhistorisches Taschenbuch, Hannover, 1846, p. 314).Il Rabany qualifica la commedia «une pièce assez mediocre », ma ne traduce intero il famoso duetto femminile per mostrare «che all’occasione Goldoni non era sprovvisto di finezza e sapeva dipingere uno de’ difetti più peculiari alle donne: la civetteria» (op. cit., p. 207). Civetteria e nulla più? Il Rabany sente la bellezza della scena, ma non se ne rende piena ragione. Ben altrimenti vi penetra il Momigliano e con questa acutissima analisi la scompone ne’ suoi più delicati elementi: «Come son resi l’introduzione dolce e copertamente assassina d’una conversazione di signore; l’iperbole nel raccontare le loro miseriole e nello scandolezzarsi piccino; la tendenza a veder grosso nel piccolo, a fare un universo nel loro cantuccio, a far le loro noie centro del mondo; l’agilità nel cambiare il discorso, l’abilita nell’avvicinarsi all’argomento, nel quale vogliono scavare, e nel nasconder colla parola il pensiero in modo che non si veda e si veda; la prontezza continua nel paragonar sè alle altre e nel dolersi se in nulla credon d’essere inferiori; la varietà inesauribile nel pungere; la crudeltà nel far sentire alle amiche — continuamente — la propria superiorità! Ma tutto questo che rilevato dal critico può sembrar serio è — per la sua piccineria — intimamente comico, e resta nel Goldoni, unico in questo, altrettanto leggero e ridicolo quanto è nella vita. Un osservatore dei soliti davanti a questi spettacoli pensa un gran male di quelle donne, ed è ingiusto: il Goldoni vede che quelli son difetti di superficie, di vita esterna, aderenti — direi — più all’ambiente ristretto che alle anime che lo popolano....» (La comicità e l’ilarità del G., Giorn. stor. d. lett. ital., 1913, vol. LXI, p. 19). Di Giacinta che da tutta la commedia emerge come [p. 93 modifica]la figura più viva e più felicemente disegnata, dice bene pur l’imbronciato Landau (C. G., Beil. z. Allg. Zeitung, 1896, n. 52, 53). La lunga parlata ch’essa fa al suo futuro marito provoca però quest’appunto serio-faceto d’un altro critico tedesco, il Jacobs: «Il nostro poeta è grande amico delle conversioni. Talvolta gli basta un discorso a sradicare vecchi difetti e a produrre un totale cambiamento di inclinazioni» (C. G., Charaktere der vornebmsten Dichter. II, Lipsia, 1793, p. 50) «Fille au coeur sec et à l’esprit adroit» definisce Giacinta il Dejob e vi esercita intorno a lungo l’arguta sua critica (Les femmes dans la comèdie franç. et italienne au XVIII siècle, Paris, 1899, pp. 84-86). Atteggiamenti nuovi e un po’ inattesi di questa figura nelle Avventure e nel Ritorno richiameranno su di essa a tempo e luogo di nuovo la nostra attenzione.

Questa fu la prima commedia nuova della stagione 1761-1762. Della recita si legge un breve cenno nella Gazzetta veneta (1761, n. 69). Il numero seguente porta, ispirato dalle Smanie, questo sonetto del Vicini:

          Se ambiziosa Donna, Uomo imprudente,
               Se Parasito, se geloso Amante,
               Se femminea amistà pingi alla gente.
               Ch’altra nel core, ed altra è nel sembiante;
          E se sì folle usanza delirante
               Mordendo il lusso vai ridevolmente;
               Correggi con piacer la turba errante
               Che sferzata s’allegra, e a te pon mente.
          Oh come mai d’inaspettati sali
               Spargi eventi veraci; alma Natura
               In te trionfa e suo Pittor t’appella.
          E grida: o mio Goldon, tu assai più vali
               Di chi, sull’Arno colta ogni lordura,
               T’insulta invan, mentre mi fai sì bella.

E chiara nell’ultima terzina l’allusione al Gozzi. Il gazzettiere [Pietro Chiari] accompagna il sonetto con queste parole: «Ciò mostra che i Poeti italiani, quando siano veramente Poeti, non sono nimici».

«Fino a circa trent’anni fa» — scriveva nel 1911 Giulio Piazza — questa commedia «era ancora nel repertorio di moltissime compagnie italiane e anzi per qualche tempo ebbe l’ufficio di servire da beccamorto alle commedie nuove fischiate, sulle quali il pubblico faceva abbassare il velario prima dell’ultima scena. Quando una commedia nuova arrivava soltanto alla metà dell’atto secondo o giù di lì, le compagnie ripiegavano con Le smanie per la villeggiatura. Tutti gli attori la sapevano. Le palandrane e le parrucche goldoniane erano già preparate quando c’era nell’aria odor di burrasca» (artic. cit.). Non documenta la curiosa notizia il Piazza. All’indiscreta nostra curiosità non sarebbe stato discaro conoscere il titolo d’una o l’altra salma composta nella bara con fraterno cuore dalle Smanie. Contentiamoci di ricordare qualche recita per altre ragioni notevole. Una p. e. della Compagnia del Teatro Marsigh Rossi di Bologna l’anno 1783 annunciata così: «... la suddetta Comica Compagnia si farà un pregio d’obbedire alla universale Richiesta col replicare quelle tre fortunatissime Commedie del sig. dott. Carlo Goldoni, intitolate: [p. 94 modifica] Le Smanie per la Villeggiatura, Le Avventure della Villeggiatura, Il Ritorno dalla Villeggiatura» (Cosentino, Il teatro Marsigli-Rossi, Bologna, 1900 p. 169).

Ai Diari di Leandro Moratin, che fu in Italia nell’ultimo decennio del settecento, togliamo questo gustoso quadretto: «Venecia. San Giovanni Crisostomo. Le smanie per la villeggiatura de Goldoni . . . Antes de la pieza saliò la dama a decir un pròlogo en verso suelto, y entre el segundo y el tercer acto el galan echò un discurso en prosa (hecho por el sin duda), de estilo figurado, retumbante y hueco, dando las gracias al generoso publico. Este publico se componia, en la mayor parte, de lacayos y gondoleros, que aquel dia, por ser el primero de la temporada, entraban de balde. En medio del patio habia un puestecillo de castañas y peras cocidas, y en los entermedios vi cruzar algunos vasos de vino. Grande estrèpito, inocente alegria, palmotes y aullidos al acabar» (Obras pòstumas, Madrid, 1867, vol. II, p. 31).

Nel vero ambiente voluto dall’indole sua sentì la commedia il Sismondi. «Io vidi rappresentare — racconta — in una villeggiatura rovinosa, sulle rive del Brenta, da una famiglia che dissipava il suo patrimonio per sostenerne il lusso, Le smanie per la villeggiatura. Tutti gli attori rappresentavano sè medesimi. Le intimazioni de’ loro creditori che aveano ricevuto alla mattina non permetteano loro di farsene gabbo; e pure ei voleano mostrarsi così superiori a tale angustia, che si compiacevano nel far la propria satira sul loro teatro» (op. cit., pp. 135, 136).

Tra il 1823 e 1824 la Reale Sarda arricchisce il suo corredo dell’intera trilogia (Costetti, op. cit., pp. 34, 48). Nel 1826 (9 sett.) recita le Smanie a Venezia, nel teatro Gallo a S. Benedetto, la compagnia Fabrichesi, che fra i suoi attori contava il De Marini e il Vestri (v. Gazz. Privileg. di Ven.).

Nella quaresima del 1869 la Comp. di Luigi Bellotti-Bon recita Le smanie con Cesare Dondini (Filippo) per esonerare dal servizio militare e serbare tutto alla sua arte Claudio Leigheb (Rasi, I Comici, vol. II, p. 18).

Quando nel marzo del 19Ò1, al Filodrammatico di Milano, la commedia venne ripresa con felice esito da Ferruccio Benini, Laura Zanon Paladini disse un garbato prologo in martelliani veneziani di Haydèe (Ida Finzi). Se ne legge un frammento nell’Album del Teatro Manzoni (25 febbr. ’907). Era «una evocazione poetica dell’epoca goldoniana» (Piccolo della Sera, Trieste, 21 marzo 1901; Indipendente, 28 dic. 1901).

Emilio Zago fece a sua volta rivivere la commedia al Goldoni di Venezia l’anno del bicentenario (1907). «Le smanie p. l. villeggiatura — scrisse allora Gino Damerini — furono recitate con affiatamento notevole e con vivo impegno individuale . . . Zago, del vecchio e gioviale Filippo fece una piacevolissima macchietta di bonario incerto ed affettuoso, la Gelich gli fu figlia piena di brio, di malizia, di gusto; intelligente e sobria; la Gasparini elegantissima le gareggiò vicino di gran lena; entrambe poi recitarono con passione le loro scene a due» (Gazzetta di Venezia, artic. cit.). Fu una «tra le più belle esecuzioni della Compagnia» (Bullettino musicale, Venezia, genn. 1907, n. 1. 2).

Difficoltà d’esecuzione non ispaurì neppur questa volta i sempre baldi filodrammatici. L’Accademia de’ Filodrammatici di Milano esegui le Smanie il 4 ottobre del 1805 (Martinazzi, op. cit., p. 119); quella di Roma nel 1887 (Prinzivalli, Accademia filodrammatica romana. Memorie, Temi, 1888, p. 216), [p. 95 modifica]

A dilettanti patrizi la commedia fu svago e opera buona nel 1907 a Vimercate (Corriere della Sera, 15 dicembre 1907), a Milano nel 1907 (Collez. Avvisi di E. M.), nel 1911 a Roma (Giorn. d’It., 24 maggio 1911). Una Società filodrammatica modenese, della quale facea parte Paolo Ferrari, rappresentò le Smanie il 15 e il 19 gennaio del 1856 (Gandini, Cronistoria ecc., vol. III, p. 174). Il Ferrari sarà stato, come altre volte, attore e concertatore.

Singole scene si fecero alla Scuola di recitazione di Firenze (diretta da L. Rasi) il 30 giugno 1900 (Collez. Avvisi di E. M.).

Delle Smanie si conosce la sola traduzione tedesca del Saal (Die thörichte Neieung zur Landlust, vol. XI, 1777), in merito alla quale si vegga il Mathar (op. cit., pp. 204-206). Alcune scene vennero tradotte in francese dal Rabany, già ricordato (pp. 207-213), da M. Mignon (Etudes de littérature italienne, 1912, pp. 148-152) e in ungherese, con grandi elogi della commedia, da Antonio Rado (Prefazione al Burbero, Budapest, 1892, p. 71). La riduzione veneziana usata dalla Compagnia Benini è opera composta «con molto garbo e fedeltà» dallo stesso capocomico (cfr. L’Indipendente, Trieste, 4, genn. 1902); quella della Comp. Zago venne eseguita da Cesare Ruberti (Giorn. d’Italia, aprile 1910). Per la fortuna di questo lavoro ricordiamo ancora El palazo dele ciacole di Alfredo Testoni, «commedia allegra e divertente, visibilmente ispirata» afferma Lucio d’Ambra «dalle Smanie» (Almanacco del Teatro italiano, Roma, 1905, p. 7). Fu scritta per Ferruccio Benini.

La commedia fu accolta dal Cameroni tra i suoi Capolavori; si trova nella Raccolta di commedie scelte del Nostro fatta a Livorno nel 1819 (voi. V), in quella recente dell’Istituto editoriale di Milano (serie I, vol. XIII) e fu ristampata mezza dozzina di volte in una antologia di commedie goldoniane che ebbe a Parigi dal 1818 al 1875 un gran numero di ristampe. In questa spesso, col diritto del più forte, le Smanie rubano il titolo alla sorella men fortunata e s’intitolano la Villeggiatura (così nel 1855, edit. Firmin Didot). Non si trovano le Smanie nella scelta del Sonzogno, illustrata dal Mantegazza, e avrebbero pur offerto argute scene e figure in copia all’abile disegnatore. Vi pensò Luigi Rasi che ristampò nel suo già citato sontuoso volume, con sfarzo di carta, tipi, e ricco apparato iconografico, tutta la trilogia e vi mandò innanzi la Villeggiatura.

E. M.


Le Smanie per la villeggiatura furono stampate la prima volta nel 1773 a Venezia, nel t. XI dell’ed. Pasquali; e furono poi ristampate a Torino (Guibert e Orgeas XIV, 1774), a Bologna (a S. Tommaso d’Aquino, 1775), a Venezia (Savioli e Pitteri XV, 1780: Zatta. cl. I, II. 1789; Garbo III. 1794) a Livorno (Masi XI, 1789), a Lucca (Bonsignori XVII, 1789) e forse altrove nel Settecento. — La presente ristampa seguì principalmente il testo dell’ed. Pasquali, desunto dal manoscritto del Goldoni. Valgono le solite avvertenze.