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«Villeggiatura! parola magica che ora vuol dire solitudine in una casa di campagna o vita di città in un sito d’acque, ma che pur evoca sempre alla mente nostra grazie al genio del Goldoni, l’idea di quelle immense brigate di cinque o sei famiglie riunite sulla cima d’una collina o sulle rive di un fiume per vivere di continuo gli uni in casa degli altri e giocare, mangiare e bere, ed il canto e le danze, l’amore e le chiacchiere, e sprecare in un mese il reddito d’un anno; villeggiatura! deliziosa pastorale fra le piogge d’autunno, le inondazioni, la mota, le zanzare, il fogliame giallo appassito, pagata poi caro con un inverno senza fuochi e senza tappeti o con un’estate soffocata tra le mura della città. Sì, la parola serba ancora un po’ di nitore, qualche allettamento, e non possiamo passare avanti ai rugginosi cancelli dei melanconici giardini suburbani dai boschetti cadenti, dalle statue, dai vasi di terra spezzati, nè percorrere le lunghe gradinate delle case macchiate dall’umido, colle imposte sconnesse, gli scudi anneriti, la meridiana sbiadita e i fiori dozzinali bagnati dall’autunno, senza pensare ai Pantaloni, alle Rosaure, ai Leandri, dei quali eran diletto in quei giorni lontani. E quando entriamo in quelle vaste sale mezzo deserte di mobilio, coi seggioloni dorati disposti lungo le pareti e tavolini da giuoco in ogni angolo, ci par di udire Giacinta e Lelio che bisbigliano dietro il paravento, il parassito Ferdinando che mescola le carte sulla verde bajetta, e s’aspetta da un momento all’altro che dai battenti dorati della porta esca fuori quel giovialone del signor Filippo, in brache, in giubba trapunta e in parrucchino, raggiante di vanità e di piacere, pescando nella scatola e sclamando: «Animo, ragazzi! nessuno giuoca? non si mangia? non si beve? La villeggiatura è fatta per divertirsi, e in casa mia non deve mancare il divertimento. Presto! carte e lumi! e cioccolatte e limonata; poi si chiamino i sonatori e si ballerà un paio di minuetti, e chi non vuole, s’accomodi, ciascuno faccia ciò che gli aggrada! Viva la libertà e viva la villeggiatura!» (Il settecento in Italia, Milano, vol. II, pp. 200-270).

Come brio e verità di dialoghi e scene mal dissimulino la soverchia tenuità della tela rileva, pur lodando, il Chatfield-Taylor: «Benchè l’atmosfera in questa trilogia sia deliziosamente serena, resta, ne’ caratteri e per la storia, men felice della Villeggiatura. Vediamo un’elegante brigata apparecchiarsi per la campagna; li vediamo nelle loro ville giocare al faraone — il bridge di quei giorni —; da ultimo li ritroviamo in città dopo aver sprecato in un mese di spassi lussuosi il reddito di tutto un anno: però la sostanza drammatica della trilogia basta appena per una singola commedia. In verità, i faticosi sforzi d’una dama corta a quattrini per costringere un sarto a finire un abito, detto mariagele dernier cri de Paris —, in tempo per gareggiare d’eleganza con una rivale ch’ella invidia e odia; il giuoco, la conversazione, la tavola e l’amore durante una villeggiatura presso Livorno — posto più discreto per satireggiare la società veneziana che non le rive del Brenta; i pettegolezzi dei domestici sul conto de padroni; la furfanteria di un paio di camerieri di locanda; e i lazzi d’un ingordo spaccone e parassita di nome Ferdinando son tutte cose più divertenti che la trama sottile offerta da un poco interessante quartetto di innamorati attraverso tre commedie che ben potevano condensarsi in soli tre atti» (Goldoni, a biography, New York, 1913, p. 259).