Le rivelazioni impunitarie di Costanza Vaccari-Diotallevi/Considerazioni/IV

IV. — Accusa contro il Governo Pontificio. Cause efficienti delle rivelazioni

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IV. — Accusa contro il Governo Pontificio. Cause efficienti delle rivelazioni
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IV.

Accusa contro il Governo Pontificio
Cause efficienti delle rivoluzioni.


Considerando in complesso l’enormità delle cose che si son fatte dire alla Diotallevi, e che costituiscono il più grave atto di accusa che siasi mai formulato contro il Governo pontificio; mentre queste deposizioni, ricevute ed ammesse per vere in ogni parte, dimostrano che questo governo è avversato e minato anche da quelli che lo servono, la mente si volge naturalmente a cercare una spiegazione di questo singolarissimo fatto.

[p. 18 modifica]Gli affezionati al Governo pontificio potrebbero esser tratti a credere che il partito liberale abbia profuso oro al Collemassi, affinchè egli desse al mondo una prova officiale, che ad abbattere il poter temporale della Santa Sede non manca se non la partenza della guarnigione francese da Roma; avendo il Processante posto in sodo che il partito Nazionale, che chiama Piemontese o dell’Alta Italia, si è propagato ed esteso mirabilmente in tutte le case, in tutti gli ordirti sociali. Ma non potendo per verun conto ammettersi una simile supposizione, è necessario cercare altrove la ragione di quel fatto.

La mania processuale della quale è invaso il Collemasi e che è l’effetto della sua natura ferina, può spiegarlo in parte, ma non completamente. La vera ragione è, secondo ogni verisimiglianza, l’effetto di due cause che giova esporre brevemente.

Allorché fu tradotto in carcere il Venanzi per ordine dato da monsignor Saverio De Merode pro ministro delle Armi, tutti gli agenti del Governo pontificio vantarono che erasi fatto un colpo stupendo, che finalmente s’era riuscito a mettere il dito sulla piaga, che il partito Nazionale in Roma sarebbe rimasto sgominato, annullato. Il De Merode, raggiante di gioia come autore di quel fatto, si prometteva già gli onori del trionfo come salvatore del potere temporale, ed i suoi più intimi cagnotti non cessavano di magnificarlo. Fra le carte rinvenute presso il Venanzi, parve a questi paladini del Papato di aver rinvenuto, o almeno se ne gloriavano, quanto fosse necessario a provare al mondo che il movimento liberale in Roma fosse l’effetto non del malcontento delle popolazioni pel mal governo pretesco, ma solamente degli incitamenti, delle mene, dell’oro che prima il Governo piemontese e poi l’Italiano avrebbe profuso in Roma. Che il processo sia stato fatto con questo intendimento apparisce manifestamente da tutta la Relazione fiscale, e specialmente dalla narrativa istorica che la precede e dal preambolo parimente isterico che precede la Sentenza della S. Consulta.

Ma come quel primo entusiasmo Demerodiano ebbe dato luogo alla riflessione, in seguito di un esame fatto [p. 19 modifica]delle carte rinvenute presso il Venanzi, le quali se poco o nulla affatto potevano aggravar lui che le riteneva, non fornivano prova alcuna della pretesa e predicata ingerenza del Governo italiano a Roma, le speranze caddero, le illusioni si dileguarono. E valga il vero: a che riduconsi tutte quelle carte delle quali via via si vien facendo menzione nella Relazione fiscale? Le più rilevanti son quelle relative alla soscrizione romana pel Monumento al conte di Cavour, ed a qualche rapporto sulle mene borboniche, che dal 1860 in poi si son venute facendo in Roma a danno delle provincie meridionali. Del resto, abbiamo una nota di oltre cinquemila nomi che il Processante, col dire e non dire, ha in seguito voluto far supporre che potesse essere una nota di proscrizione; ma che in realtà non è che un elenco di nomi fittizi composto, per commissione di un tal Michele Turchetta napolitano, che voleva con esso corbellare un tal Cecchetani, da un tal Antonio Rosati unitamente a Gio. Batt. Tofi copista in Roma, via degli Uffizi dello Eccell mo Vicario, n. 29, il quale ne ebbe in compenso paoli venticinque. Ciò risulta dagli esami formali a cui furono sottoposti dal Collemassi il Turchetta il 20 settembre 1862, ed il Tofi nel giorno successivo; esami che si leggono in quella parte del processo venuto in potere del Comitato, e precisamente al fog. 1886 al 1915 quanto al Turchetta; e al fog. 1916 al 1922 quanto al Tofi. Sul particolare di questa famosa nota giova osservare quanto sia fedele la Relazione fiscale, e quanta fede le si debba avere, non trovandosi in essa fatta menzione alcuna delle risultanze degli esami indicati, le quali pongono in evidenza essere quella nota null’altro che una truffa grossolana di scudi 50 che il Turchetta ed il Cecchettani volevano fare al Comitato Romano, il quale per altro, accortosi a prima vista dell’inganno, non pagò neppure un centesimo.

Ciò posto è evidente che nè le carte relative al monumento Cavour, nè i rapporti sul brigantaggio potevano dar materia ad un processo politico; imperocchè come non poteva dirsi atto di lesa maestà l’aver dato opera ad onorare la memoria di un uomo grandissimo [p. 20 modifica]compianto per la sua morte immatura e repentina, non pure in Italia ma in tutti i paesi civili del mondo; così non poteva riguardarsi come un delitto di Stato l’aver cercato informazioni sulle mene borboniche, senza confessare implicitamente che di queste mene fosse complice il Governo pontificio. Tutt’al più, seguendo rigorosamente le leggi Draconiane vigenti negli Stati di Santa Chiesa in materia politica, e non tenendo conto della spiegazione data dal Venanzi del come si trovassero presso di lui le carte che gli furono sequestrate, si sarebbe potuto condannar questo a qualche anno di carcere come rinvenuto detentore di qualche stampa oontraria al governo dei preti.

Ma dopo tanti vanti e tante millantazioni, e dopo il magnificare che s era fatto nei fogli ufficiali ed ufficiosi di Roma e delle provincie libere d’Italia, il trovarsi ridotti a così meschini risultati tornava maravigliosamente in ridicolo ed i lodati ed i lodatori; l’aspettativa con cui stava il pubblico di questo gran processo, e la curiosità che gli si era fatta concepire, si sarebbe volta in biasimo e scherno contro il Governo.

Fin dal passato secolo l’abate Denina nelle sue storie sulla rivoluzioni d’Italia notava che presso la corte di Roma si tiene grandissimo conto della parola decoro; la quale, in sostanza ed in pratica, ha questo significato che il Governo applicando l’infallibilità pontificia in ordine ai dogmi religiosi, alle cose mondane e governative, non deve mai nè mostrare nè confessare di avere errato. Quando un chierico, specialmente se in carica, o per insipienza o per malizia commette o colpe o delitti, per salvare il decoro dell’abito o del Governo non si punisce mai, ma talvolta si rimove e si promuove, promoveatur ut amoveatur, è la formula assiomatica che si applica in simili casi. Questo decoro, questa pretesa universale infallibilità, ha nello Stato pontificio una latissima applicazione nei giudizi criminali. Se si tratti d’inquisizioni processuali per delitti comuni, è caso rarissimo che l’inquisito ne esca netto colla dichiarazione d’innocenza: l’uso è di dimetterlo colla formula, non constare abbastanza. Che se si tratti d’inquisizione per [p. 21 modifica]titolo politico, quando l’inquisito sia tanto avventurato da ottenere la libertà dopo più mesi di carcere, la sua liberazione è sempre accompagnata dal precetto politico, che consiste nel divieto di uscire dal territorio di Roma, e spesso dalle cerchia delle mura, e di non circolare per la città prima che il sole siasi levato o dopo il tramonto.

Con siffatti principii e con siffatto metodo di agire sarebbe stata una vera anomalia secondo la natura del Governo pontificio; se si fosse permesso che il processo Venanzi riuscisse ad un nonnulla; si sarebbe dovuto confessare di aver perseguitato un’ombra senza corpo, si sarebbe dovuto rinunciare al proponimento ben fermo di mostrare il Governo piemontese autore del malcontento universale dei popoli, che le armi francesi, sciupando miseramente le glorie di Magenta e Solferino, tengono, a forza sotto il dominio dei chierici.

A rimediare a siffatto inconveniente ed a sostenere i vanti, lo strepito e le millantazioni fatte al tempo della carcerazione del Venanzi, si è avuto ricorso alla Diotallevi la quale, come apparisce dagli atti che si pubblicano, domandò l’impunità fin dai primordii della processura. A questa donna il Processante ha fatto dire quanto gli occorresse a sostenere l’accusa che si dava all’uno ed all’altro degli inquisiti convalidando ciò che ad essa si faceva dire con quanto, secondo l’opportunità, si faceva pur dire o dal Fantaccini o dal Margutti che trovavansi involti nella stessa processura: e che, sebbene sieno chiamati rei confessi caput proprium nella Relazione fiscale, sono pur essi impunitari; come viene dimostrato dalla grazia papale dai essi ottenuta contemporaneamente alla Diotallevi, in pendenza di giudizio contro l’espressa disposizione di legge agli articoli 661, 652 a 655, ed all’articolo 657 di procedura criminale, secondo giustamente avvertiva reclamando il Dionisi a pag. 8 della Difesa fatta pel Fausti. E poiché, come si è detto, e come risulta dalla Relazione fiscale e dalla Sentenza della Consulta, intendimento principale di questo processo era di provare che gl’incessanti e non dubbi segni della popolazione al Governo papale, non era che [p. 22 modifica]l’effetto delle suggestioni e dell’oro piemontese, così il Processante si è costantemente studiato facendo parlare la famosa impunitaria, di suggerirle quanta appunto credesse confacente a raggiungere l’intento propostosi Ciò spiega il fatto singolare di quella nota singolarissima d’impiegati pontifico che diconsi o assicurati dal Governo italiano nei loro posti, o che dal Governo italiano ricevono un doppio soldo. Cosa singolarissima! Se il Comitato Nazionale avesse dovuto compilare una nota degli impiegati pontifici da destituirsi o da mettersi in quiescenza allorquando la nazione prenderà possesso della sua capitale, il Comitato non avrebbe mancato di porre in nota moltissimi di quelli che nel processo sono notati come venduti al Governo italiano.

Oltre poi la mania processuale dei Collemassi e in cagione precedentemente indicata, può anche avere influito a spiegare le risultanze degli atti sino all’eccesso a cui Sorto state spinte, specialmente per quelle parte che concerne la nota degli impiegati traditori, anche un’altra causa,la quale ha erigine dà altro principio.

La Corte di Roma antecedentemente al 1849, costantemente ostinata nel suo sistema d’immobilità, erasi però studiata di mantenere entro certi limiti intatta la propria dignità una certa tal quale autonomia, di aver conservato entro casa il libero arbitrio ed una tal quale indipendenza. Sottostava all’influenza del gabinetto di Vienna, stante la prevalenza ed il predominio dell’Austria in Italia; ma questa influenza riguardava la politica estera ed il principio della ostinata resistenza alla corrente della moderna civiltà, e non s’era mai intromessa, almeno apparentemente, nell’ordinamento interno delta Stato. Il chiericato governativo, con la sua schiera di seguaci burocratici governava Roma e lo Stato, e ne aveva l’assoluta padronanza. Però dal 1849 in poi la Corte Romana ha perduto anche nella apparenza, quella dignità © quella padronanza.

11 partito detto Cattolico, sotto la cui insegna si sono rannodate le molte e diverse razze di legittimisti, riusciva in quell’anno a spingere battaglioni Francesi a riconquistare Roma al Papato. Le batterie francesi [p. 23 modifica]persero a questo le porte dell’Eterna Città; ma esso dovette naturalmente rientrarvi accompagnato dall’influenza del partito cattolico che ve lo aveva ricondotto. Questo partito divenuto vie maggiormente prevalente in. Francia per l’appoggio prestato al Presidente della Repubblica francese, il quale, come è noto se ne valse per salire al trono, fu quello che dal 1849 in poi influì potentemente nei consigli della Corte di Roma, la quale a breve andare divenne un governo dì partito, la fucina di tutte le brighe cattolico-legittimiste. La Prelatura romana, visto che questo partito gli salva, presentemente lo Stato, subì rassegnata quell’influenza, non. brigandosi punto nè punto pensando che le intemperanze e le smodate esigenze e le avventatezze di quel partito avrebbero in processo di tempo potuto sopraffarla.

Dieci anni dopo la presa di Roma, le armi francesi scendevano nuovamente in Italia, non più a combattere pel dispotismo contro la libertà, ma per aiutare gli Italiani nell’acquisto della loro indipendenza. Magenta e Solferino cacciavano l’Austriaco dalla Lombardia; cessavano di esistere i ducati di Toscana, Parma; e Modena; e l’Emilia ai sottraeva alla dominazione clericale. Restava a Napoli il Borbone, ma ciascuno gli veniva contando i giorni di vita; restava pur esso a Roma il Papa mantenendo le Marche, l’Umbria ed il resto dello Stato, ma la sua esistenza era quella di un inquisito dinanzi ai giudici.

Per lo passato niuno quasi si sarebbe attentato di discutere se convenisse o no che il capo della Chiesa fosse ad un tempo sovrano di una Stato: l’inseparabilità dei due poteri era comunemente ammessa quasi come assioma. Ma all’epoca indicata il Papato fu tradotto innanzi l’opinion pubblica affinchè fosse giudicato se quella credenza fosse una verità, o non piuttosto un pregiudizio: per esaminare se la Chiesa avesse diritto ad infeudarsi i popoli, e se infine al bene ed all’incremento di essa, fosse o no confacente la mescolanza dei due poteri. All’assalto tremende mosso e coi fatti e colle parole contro il Papato, il partito cattolico-legittimista, [p. 24 modifica]che vedeva la sua caduta nella caduta di quello, si studiò di opporsi e coi fatti e colle parole vigorosamente.

Nel campo dei fatti riuscì a Castelfidardo; riuscì in quello della discussione all’assurdo, che Roma non appartenga nè agli Italiani e neppure ai Romani, ma al Mondo cattolico.

Data appunto da quest’epoca la prevalenza sull’animo imbecille di Papa Pio IX di monsignor Saverio De Merode, uno dei capi più ardenti e più operosi del nominato partito. Il De Merode fu nominato ministro delle Armi, e colla sua venuta al potere i cattolici legittimisti accorsero in Roma da ogni parte tanto che il vecchio elemento della Prelatura romana ne rimase quasi per intiero sopraffatto. A breve andare lo stesso cardinale Antonelli si accorse di avere nel monsignor belga non un aiuto, ma un antagonista, ed il collegio dei Cardinali composto di vecchi imbecilli e codardi, mormorò sommessamente e lasciò fare. Da indi in poi due diverse correnti si manifestarono nel Governo pontificio; a capo dell’una rimase l’Antonelli coi vecchi elementi della Curia Romana, a capo all’altra si pose il De Merode, a cui, come molto influente sull’animo del papa, fece adesione e si accostò gente nuova anelante di salire a maggior potenza. Si ebbero e si hanno quasi due governi; giacché il De Merode, sebbene ministro delle Armi, pose da per tutto lo mani violenti, l’occhio losco, e la mente scompigliata. Venuto in Italia per congiurare contro l’Italia, portò con sè quella mente pregiudicata, già molto comune al di là delle Alpi, sul conto degli Italiani, come di gente in cui prevalga sopra tutto la mala fede ed il tradimento. Seguendo il principio che Roma appartenga ai Cattolici, non ai Romani, parve e pare al De Merode che non dai Romani, ma dai Cattolici di tutto il mondo, Roma debba esser governata. Quindi egli vide sempre di mal occhio i vecchi impiegati governativi, nella infedeltà de’ quali vede il marcio del Governo pontificio, l’impotenza a contenere ed opprimere il partito Nazionale, non già nell intima natura di quello, nella legge di progressività dell’uman genere.

[p. 25 modifica]Dopo ciò riesce molto verosimile che il Coltemassi abbia travato una ragione di più per seguire (volente e consenziente di necessità il presidente Sagretti direttore del processo, avverso per cupidità di potere a1 cardinale Antonelli). la sua mania processuale, nel desiderio di secondare le opinioni e gli intendimenti del De Merode, tanto più che questi era direttamente interessato nel processo Venanzi, come quello che avendone ordinato l’arresto, erane il principale autore.