Le rime di M. Francesco Petrarca/Canzone IV

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Canzone III Sonetto XX

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CANZONE IV.


N
El dolce tempo de la prima etade,

     Che nascer vide, ed ancor quasi in erba,
     La fera voglia che per mio mal crebbe;
     Perchè cantando il duol si disacerba,
     5Canterò, com’io vissi in libertade,
     Mentre Amor nel mio albergo a sdegno s’ebbe:
     Poi seguirò, sì come a lui ne ’ncrebbe
     Troppo altamente, e che di ciò m’avvenne:
     Di ch’io son fatto a molta gente esempio:
     10Benchè ’l mio duro scempio
     Sia scritto altrove sì, che mille penne
     Ne son già stanche, e quasi in ogni valle
     Rimbombi il suon de’ miei gravi sospiri,
     Ch’aquistan fede a la penosa vita:
     15E se qui la memoria non m’aita,
     Come suol fare, iscusilla i martiri,
     Ed un penser che solo angoscia dalle,
     Tal, ch’ad ogni altro fa voltar le spalle:
     E mi face oblïar me stesso a forza:
     20Che tié di me quel d’entro, ed io la scorza.
I dico, che dal dì che ’l primo assalto
     Mi diede Amor, molt’anni eran passati,
     Sì ch’io cangiava il giovenile aspetto:
     E d’intorno al mio cor pensier gelati
     25Fatto avean quasi adamantino smalto,
     Ch’allentar non lassava il duro affetto:
     Lagrima ancor non mi bagnava il petto.

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     Nè rompea il sonno: et quel che in me non era,
     Mi pareva un miracolo in altrui.
     30Lasso, che son? che fui?
     La vita il fin, e ’l dì loda la sera.
     Chè sentendo il crudel di ch’io ragiono,
     Infin allor percossa di suo strale
     Non essermi passato oltra la gonna,
     35Prese in sua scorta una possente donna;
     Ver cui poco giammai mi valse, o vale
     Ingegno, o forza, o dimandar perdono.
     E i duo mi trasformaro in quel ch’i’ sono,
     Facendomi d’uom vivo un lauro verde;
     40Che per fredda stagion foglia non perde.
Qual mi fec’io quando primier m’accorsi
     Della trasfigurata mia persona:
     E i capei vidi far di quella fronde
     Di che sperato avea già lor corona;
     45E i piedi, in ch’io mi stetti, e mossi, e corsi,
     (Com’ogni membro all’anima risponde)
     Diventar due radici sovra l’onde,
     Non di Peneo, ma d’un più altero fiume;
     E n’ duo rami mutarsi ambe le braccia!
     50Nè meno ancor m’agghiaccia
     L’esser coverto poi di bianche piume
     Allor che fulminato, e morto giacque
     Il mio sperar che tropp’alto montava.
     Chè perch’io non sapea dove, nè quando
     55Me ’l ritrovassi; solo lagrimando,
     Là ’ve tolto mi fu, dì, e notte andava
     Ricercando dal lato, e dentro all’acque:
     E già mai poi la mia lingua non tacque,
     Mentre poteo, del suo cader maligno:
     60Ond’io presi col suon color d’un cigno.
Così lungo l’amate rive andai;
     Che volendo parlar cantava sempre
     Mercè chiamando con estrania voce:

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     Nè mai in sì dolci o in sì soavi tempre
     65Risonar seppi gli amorosi guai,
     Che ’l cor s’umilïasse aspro e feroce.
     Qual fu a sentir; chè ’l ricordar mi coce?
     Ma molto più di quel ch’è per innanzi,
     Della dolce, ed acerba mia nemica
     70È bisogno ch’io dica;
     Benchè sia tal, ch’ogni parlare avanzi.
     Questa che col mirar gli animi fura,
     M’aperse il petto, e ’l cor prese con mano,
     Dicendo a me, Di ciò non far parola:
     75Poi la rividi in altro abito sola,
     Tal, ch’i’ non la conobbi, (o senso umano!)
     Anzi le dissi ’l ver pien di paura:
     Ed ella ne l’usata sua figura
     Tosto tornando, fecemi, oimè lasso,
     80D’un quasi vivo, e sbigottito sasso.
Ella parlava sì turbata in vista,
     Che tremar mi fea dentro a quella petra
     Udendo, I’ non son forse chi tu credi:
     E dicea meco: Se costei mi spetra,
     85Nulla vita mi fia noiosa o trista:
     A farmi lagrimar, signor mio, riedi.
     Come, non so, pur io mossi indi i piedi,
     Non altrui incolpando, che me stesso,
     Mezzo tutto quel dì tra vivo, e morto.
     90Ma perchè ’l tempo è corto,
     La penna al buon voler non pò gir presso;
     Onde più cose ne la mente scritte
     Vo trapassando: e sol d’alcune parlo,
     Che meraviglia fanno a chi l’ascolta.
     95Morte mi s’era intorno al core avvolta,
     Nè tacendo potea di sua man trarlo,
     O dar soccorso alle virtuti afflitte:
     Le vive voci m’erano interditte:
     Ond’io gridai con carta, e con inchiostro,

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     100Non son mio, no. S’io moro, il danno è vostro.
Ben mi credea dinanzi agli occhi suoi
     D’indegno far così di mercè degno:
     E questa spene m’avea fatto ardito.
     Ma talor’ umiltà spegne disdegno;
     105Talor l’enfiamma: e ciò sepp’io da poi
     Lunga stagion di tenebre vestito:
     Ch’a quei preghi il mio lume era sparito.
     Ed io non ritrovando intorno intorno
     Ombra di lei, nè pur de’ suoi piedi orma,
     110Com’uom che tra via dorma,
     Gittaimi stanco sovra l’erba un giorno.
     Ivi accusando il fugitivo raggio
     A le lagrime triste allargai ’l freno,
     E lasciaile cader come a lor parve:
     115Nè già mai neve sott’al Sol disparve,
     Com’io sentì me tutto venir meno,
     E farmi una fontana appiè d’un faggio.
     Gran tempo umido tenni quel vïaggio.
     Chi udì mai d’uom vero nascer fonte?
     120E parlo cose manifeste et conte.
L’alma ch’è sol da Dio fatta gentile;
     (Che già d’altrui non pò venir tal grazia)
     Simile al suo fattor stato ritene:
     Però di perdonar mai non è sazia
     125A chi col core, e col sembiante umile
     Dopo quantunque offese a mercè vene:
     Et se contra suo stile ella sostene
     D’esser molto pregata, in lui si specchia;
     E fal perchè ’l peccar più si pavente:
     130Che non ben si ripente
     De l’un mal, chi de l’altro s’apparecchia.
     Poi che Madonna da pietà commossa
     Degnò mirarmi, e riconobbe, e vide
     Gir di pari la pena col peccato;
     135Benigna mi ridusse al primo stato.

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     Ma nulla è al mondo in ch’uom saggio si fide:
     Ch’ancor poi ripregando, i nervi et l’ossa
     Mi volse in dura selce; et così scossa
     Voce rimasi de l’antiche some,
     140Chiamando Morte, e lei sola per nome.
Spirto doglioso errante, mi rimembra,
     Per spelunche deserte, e pellegrine,
     Piansi molt’anni il mio sfrenato ardire:
     Et ancor poi trovai di quel mal fine,
     145E ritornai nelle terrene membra,
     Credo, per più dolore ivi sentire.
     I seguì tanto avanti il mio desire,
     Ch’un dì cacciando sì, com’io solea,
     Mi mossi; e quella fera bella, e cruda
     150In una fonte ignuda
     Si stava, quando ’l Sol più forte ardea.
     Io, perchè d’altra vista non m’appago,
     Stetti a mirarla: ond’ella ebbe vergogna,
     E per farne vendetta, o per celarse,
     155L’acqua nel viso co le man mi sparse.
     Vero dirò: forse, e parrà menzogna:
     Ch’i’ sentì’ trarmi della propria immago;
     Ed in un cervo solitario, e vago
     Di selva in selva ratto mi trasformo;
     160Ed ancor de’ miei can’ fuggo lo stormo.
Canzon', i non fu’ mai quel nuvol d’oro
     Che poi discese in preziosa pioggia,
     Sicchè ’l foco di Giove in parte spense:
     Ma fui ben fiamma ch’un bel guardo accense;
     165E fui l’uccel che più per l’aere poggia,
     Alzando lei che ne’ miei detti onoro:
     Nè per nova figura il primo alloro
     Seppi lassar, che pur la sua dolce ombra
     Ogni men bel piacer del cor mi sgombra.