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     Nè rompea il sonno: et quel che in me non era,
     Mi pareva un miracolo in altrui.
     30Lasso, che son? che fui?
     La vita il fin, e ’l dì loda la sera.
     Chè sentendo il crudel di ch’io ragiono,
     Infin allor percossa di suo strale
     Non essermi passato oltra la gonna,
     35Prese in sua scorta una possente donna;
     Ver cui poco giammai mi valse, o vale
     Ingegno, o forza, o dimandar perdono.
     E i duo mi trasformaro in quel ch’i’ sono,
     Facendomi d’uom vivo un lauro verde;
     40Che per fredda stagion foglia non perde.
Qual mi fec’io quando primier m’accorsi
     Della trasfigurata mia persona:
     E i capei vidi far di quella fronde
     Di che sperato avea già lor corona;
     45E i piedi, in ch’io mi stetti, e mossi, e corsi,
     (Com’ogni membro all’anima risponde)
     Diventar due radici sovra l’onde,
     Non di Peneo, ma d’un più altero fiume;
     E n’ duo rami mutarsi ambe le braccia!
     50Nè meno ancor m’agghiaccia
     L’esser coverto poi di bianche piume
     Allor che fulminato, e morto giacque
     Il mio sperar che tropp’alto montava.
     Chè perch’io non sapea dove, nè quando
     55Me ’l ritrovassi; solo lagrimando,
     Là ’ve tolto mi fu, dì, e notte andava
     Ricercando dal lato, e dentro all’acque:
     E già mai poi la mia lingua non tacque,
     Mentre poteo, del suo cader maligno:
     60Ond’io presi col suon color d’un cigno.
Così lungo l’amate rive andai;
     Che volendo parlar cantava sempre
     Mercè chiamando con estrania voce: