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P A R T E. | 17. |
Nè mai in sì dolci o in sì soavi tempre
65Risonar seppi gli amorosi guai,
Che ’l cor s’umilïasse aspro e feroce.
Qual fu a sentir; chè ’l ricordar mi coce?
Ma molto più di quel ch’è per innanzi,
Della dolce, ed acerba mia nemica
70È bisogno ch’io dica;
Benchè sia tal, ch’ogni parlare avanzi.
Questa che col mirar gli animi fura,
M’aperse il petto, e ’l cor prese con mano,
Dicendo a me, Di ciò non far parola:
75Poi la rividi in altro abito sola,
Tal, ch’i’ non la conobbi, (o senso umano!)
Anzi le dissi ’l ver pien di paura:
Ed ella ne l’usata sua figura
Tosto tornando, fecemi, oimè lasso,
80D’un quasi vivo, e sbigottito sasso.
Ella parlava sì turbata in vista,
Che tremar mi fea dentro a quella petra
Udendo, I’ non son forse chi tu credi:
E dicea meco: Se costei mi spetra,
85Nulla vita mi fia noiosa o trista:
A farmi lagrimar, signor mio, riedi.
Come, non so, pur io mossi indi i piedi,
Non altrui incolpando, che me stesso,
Mezzo tutto quel dì tra vivo, e morto.
90Ma perchè ’l tempo è corto,
La penna al buon voler non pò gir presso;
Onde più cose ne la mente scritte
Vo trapassando: e sol d’alcune parlo,
Che meraviglia fanno a chi l’ascolta.
95Morte mi s’era intorno al core avvolta,
Nè tacendo potea di sua man trarlo,
O dar soccorso alle virtuti afflitte:
Le vive voci m’erano interditte:
Ond’io gridai con carta, e con inchiostro,
Non