Le odi e i frammenti (Pindaro)/Le odi siciliane/Ode Pitica XII
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ODE PITICA XII
Nella stessa gara in cui Senocrate vinceva la corsa dei carri, il suo piú modesto concittadino Mida trionfava nella gara auletica. E Pindaro ne cantava la vittoria. Questa ode occupa dunque una posizione singolare fra le altre, composte quasi tutte ad esaltazione di atleti; e si distingue anche dal lato della forma, perché non presenta tipo epodico, ma si compone di quattro strofe uguali.
Come per gli atleti ricorreva a miti eroici, per un musico Pindaro ha scelto un mito musicale. Quando Perseo recide il capo della Gorgone, i serpi che ghirlandano il capo della creatura mostruosa e bellissima si divincolano nell’agonia, emettendo lugubri sibili. Atena, che assiste l’eroe, imitando quella funerea sinfonia, compone un’aria, la chiama aria dalle molte teste, e la dona agli uomini, che serva ad accompagnare gli agoni.
Donde origina questo mito? Ai Greci la musica sembrava arte piú che ogni altra misteriosa e divina. Maghi, come Orfeo, erano i primi musici: magiche le arie che quelli avevano composte. E si tramandavano, distinte ciascuna da un nome, di generazione in generazione, come cose sacre; e veniva punito chi le alterasse. Tra queste ce ne dovè essere una detta aria dai molti capi (νόμος πολλᾶν χεφαλᾶν); e capo avrà voluto dire principio della melodia, tèma; e quest’aria sarà stata appunto caratteristica per la molteplicità, allora non consueta, dei tèmi. Oscuratosi, o deliberatamente repudiato il vero senso, il vocabolo capi fu inteso nel significato proprio, e ne derivò questo mito. Bellissimo, e tale che un musicista moderno potrebbe toglierne materia per una composizione sinfonica.
A proposito di Mida e di questa sua vittoria, gli antichi narrarono un aneddoto. Appena Mida ebbe incominciato a suonare, la linguetta del flauto (aulós: noi traduciamo flauto, ma in realtà era uno strumento a linguetta) si ruppe. Ma il virtuoso non se ne diede per intesa. Seguitò a suonare il flauto come fosse un sufolo, e ciò nondimeno seppe deliziare gli ascoltatori, ed ebbe la palma. La corda unica di Paganini. Gli uomini son sempre gli stessi fanciulli cicaloni.
Evidente, mi sembra, e strana, è qui una duplice concezione pindarica del mito di Medusa. Le Forcidi sono in origine concepite come uno dei tanti mostri tricorpori (Gerione, Cerbero, etc.) della mitologia greca; che per giunta aveva un occhio solo per tre teste; onde, recisa quella che lo possedeva, il mostro rimane accecato (v. 12). Tre corpi in uno, serpenti per capelli, un occhio per tre teste: non sono elementi da costituire una bellezza. E nondimeno, Pindaro parla della bellezza di Medusa: certo avendo in mente le piú recenti rappresentazioni artistiche di Medusa, che univano all’orrore della chioma anguiforme, la bellezza d’un volto virgineo.
La città invocata in principio è Agrigento: l’Agrigento ferace di greggi nel verso 2-3, è il fiume omonimo, che scorre presso la città. Di Perseo e della gioviale pioggia d’oro che gli die’ vita, tutti sanno. Meno ovvio è il mito di Polidete re dei Serifi, che, impadronitosi della madre di lui Danae, la costringeva a nozze ingrate. Perseo, recisa la testa di Medusa, inforcò Pegaso, volò sull’isola, e, mostrando la testa ferale, impietrò il re e tutti gl’isolani. Il mito fu largamente sfruttato dagli scrittori di commedie e di drammi satireschi.
A MIDA D’AGRIGENTO
VINCITORE COL FLAUTO A PITO
I
Te invoco, città di Persèfone, città la piú bella fra quante
albergo son d’uomini, o amica del fasto, che presso Agrigento
ferace di greggi, ti levi su clivo turrito: o Signora,
gradisci benevola, e teco si accordino gli uomini e i Numi,
da Mida le foglie del serto di Pito gradisci, e lui stesso,
che vinse gli Ellèni nell’arte cui Pàllade
un giorno rinvenne, intrecciando
la nenia feral de le Gòrgoni.
II
La nenia che giú da le vergini cervici di serpi tutte orride
stillare con misero spasimo udiva Persèo, quando l’una
spengea delle suore trigemine; e il capo fatale, dei Sèrifi
all’isola addusse. Le Fòrcidi cosí nella tenebra immerse;
cosí di Medusa bellissima la testa rapí; di Polídete
all’epula pose funereo fine;
e sciolse sua madre dal giogo
perenne, e dal talamo ingrato,
III
il figlio di Dànae, cui padre, si narra, fu l’oro piovuto
dall’ètere. Or Pàllade, quando l’eroe prediletto ebbe salvo
da questo travaglio, sul flauto compose un multísono canto,
volendo il lungo ululo lugubre dal fitto guizzar delle fauci
sprizzante, imitare. La Dea compose quell’aria, ed agli uomini
presente ne fece, la disse canzone
dai capi molteplici; e fosse
compagna all’agon popoloso.
IV
Sgorga essa, dei balli compagna fedel, fra la tenüe lamina
di rame, e la canna che cresce nei prati cui bagna il Cefíso,
vicino a la bella contrada d’Orcòmeno, sacra a le Càriti. —
Se prospera sorte è tra gli uomini, da pena non mai si scompagna;
Ma un Nume segnare oggi stesso può fine alla pena. Non s’èvita
la sorte. Ma un giorno, giungendo imprevisto,
un bene avverrà che ti neghi,
e l’altro, inatteso, t’accordi.