Le notti romane/Parte prima/Notte terza/Colloquio I
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NOTTE TERZA
COLLOQUIO PRIMO
Degli illustri uccisori de’ figliuoli propri Giunio Bruto e Virginio,
all’apparire de’ quali nasce contesa sopra i meriti di quella magnanimitá.
Le maraviglie da me vedute ed ascoltate eccitavano nell’animo
mio tumultuosi pensieri. Perocché io considerava se fosse conceduto
agli uomini eccellenti in alcuna disciplina il conversare cogli
estinti in quella pure eccellenti, quanto potrebbero innalzarsi
le umane cognizioni. Sarebbe quindi alleviata la mestizia degli
eruditi per lo smarrimento di tanta parte delle storie, onde non
piú l’antichitá rimarrebbe da noi separata quasi da immenso
deserto. Ma forse non sarebbero di ciò lieti i coltivatori delle
scienze: perché di esse non tralucono che lampi ne’ secoli remoti,
quasi oppresse dalla fortuna e ridotte a ruine. Ora conversando
co’ trapassati udiremmo la storia delle invenzioni e progressi
loro, e forse a noi sconosciuti artifizi, e mirabili esperimenti, e
misteri di natura, i quali giacciono in grembo della obblivione.
Non piú sarebbero ignoti i nomi degli inventori di utili sussidi
e di arti dilettevoli, né tante occulte cagioni di passate vicende
sarebbero da noi, solo con faticose congetture, vanamente investigate.
Apparirebbe allora che i secoli in ampia sfera volgendosi
danno e tolgono le scienze alle nazioni. Sarebbero quindi meno
frequenti le querele sulla brevitá della vita, nella quale appena
l’intelletto ha formate le sue forze, e adombrata una immagine
di sapienza, ecco suona la tromba fatale. Mentre io era perplesso in queste considerazioni, ronzavano ancora le recenti sentenze
nell’orecchio mio, e rimaneano le immagini nelle pupille.
Scesi pertanto la susseguente notte, vie piú bramoso di nuovi portenti, in quelle profonditá con pietosa riverenza. Né stetti guari anelando in quella aspettazione, perocché apparve immantenente Marco Tullio, e fattomisi incontro con lieto volto, inco minciò: — Illustre non solo è questo desiderio tuo di qui ragionare, ma ancora costante per gli ripetuti cimenti. Né soltanto è libero il tuo petto da’ palpiti del timore, ma vie piú ci vedi, piú brami di favellare con noi. — Ed io risposi: — È pur comune in questa vita che i guerrieri stieno intrepidi nelle battaglie contro nemico assetato del sangue loro. Perché fuggirò io dunque l’aspetto incorporeo di anime tali che nel velo delle membra ebbero per costume d’essere terribili a’ superbi, ed a’ supplichevoli benigne? Io vengo sommesso al vostro innocente imperio, e temo assai piú i viventi che voi: perché quelli sono perturbati da’ perniciosi appetiti, e voi gli avete deposti con l’ingombro caduco. E come può mai essere depravata quell’indole generosa in voi qui tersi nel pelago eterno, cosí che offendiate me vostro ammiratore? — Soggiunse Tullio con benevolenza: — Convenevole è il tuo giudizio sull’indole nostra, o postero sincero. E quantunque il mio Pomponio con la sua libera filosofia spirante greca mollezza abbia, siccome udisti, biasimati i vizi romani descrivendoli quasi infiniti e mostruosi, pur tanto non valse la sua mordace favella, che annoverasse fra loro la viltá. Imperocché nelle stesse nostre piú biasimevoli operazioni mai non mancò la maestá della grandezza e lo splendore della virtú, di quella spezialmente la quale ci movea a combattere soltanto co’ forti. —
Mentre cosí quegli ragionava meco, giá gli antri erano occupati da moltitudine infinita, onde volgendosi a quella, egli stette in silenzio. Tenea però le pupille fise ad una larva fra tutte a lui cagione di maraviglia. Ella era di sembianze severe e provette, cinta della toga consolare, e stringea per le mani due giovanetti che l’accompagnavano con fronte dimessa. Rimanea dubbioso il pensiero, se quel contegno fosse per conscienza di colpa o per onesta verecondia convenevole alla adolescenza loro. All’inol 7 trarsi de’ quali si udí un fremito comune di flebile pietá; ma il consolo non turbandosi per quello, accennava silenzio col severo sguardo, e poi con autorevole contegno esclamò: — Di che vi duole? Forse di costoro? Come anzi nel vederli non s’infiamma di sdegno generoso ogni anima libera, grande, veramente romana? Vi duole di me? Io credea di meritare non la pietá vostra, ma la vostra maraviglia. Misero io non sono, anzi felice, il quale con magnanimo esempio v’insegnai che la prima virtú è il vendicare la patria offesa. —
Allora udii una voce fra le turbe che dicea: — Le nostre ciglia, asciutte ne’ cimenti marziali, grondarono, o consolo terribile, quando al cenno della mano paterna cadde la scure. — Quegli rispose: — Fui padre anche in quella alta prova. Niuno pensi ch’io non ne sofferissi le angosce, ma le vinsi per voi. —
— Ahi, — sciamò allora quello spettro del volgo, — i zampilli da’ busti spruzzarono di quel tuo sangue la toga tua, e nel mirarli si oscurarono gli occhi nostri di terrore. — Il consolo irato rispose: — Oh pietá servile! No che i Romani non la sofferirono, e tu la sentisti perché timido ammiratore de’ tiranni. Vile schiavo de’ Tarquiní, in ciò solo audace, che presumi innanzi i magnanimi Quiriti contendere con Giunio Bruto padre della illustre loro libertá! — Cosi dicendo spinse con impeto i due adolescenti verso la moltitudine sciogliendoli dalle mani, ed aggiunse: — Costoro col mio sangue nelle vene, tentarono piegare le vostre cervici al giogo appena scosso. Io consolo, io liberatore della patria, sua speranza, sua tutela, sua vendetta, come potea dirmi senza delitto, credermi senza vergogna, padre de’ suoi traditori? Roma perseguitata dalle insidie degli esuli tiranni, non adulta nella sua libertá, richiedea un esempio rigoroso, che la confortasse nel suo rinascimento. Io lo diedi. Chiunque fra voi lo piange è un ingrato. — Disse lo spettro: — Non fu ingiusto il supplizio, ma fiera la costanza paterna di sentenziarlo, orribile la intrepidezza di vederlo. — Giunio allora piegò la mano al fianco, alzò il mento, e proruppe: — Non era io giudice nel seggio consolare? — L’altro rispose: — Ma eri padre. —
— SI, — disse Giunio, — ma piú della patria che de’ nemici suoi. — Lo spettro aggiunse: — Grave era il delitto, funesta la clemenza, necessaria la pena: non era però mestieri che tu la imponessi, e meno che la gustassi con atroce severitá. —
— Chi, — sciamò Giunio, — se non io che ve gli diedi, dovea togliervi questi ribaldi fautori della superbia reale? — Quegli rispose: — Il Senato ed il popolo. — Tacque allora Giunio come perplesso fra diversi pensieri. Aggrottava le nere ciglia quasi adunando i concetti preparati ad alcuna sentenza maravigliosa. Ma un mesto silenzio chiudea le sue labbra. E poiché lo spettro sofferse riverente quella aspettazione, alla fine conchiuse: — O Giunio, se tu scendendo dal seggio curule avessi lasciata Roma libera giudice de’ tuoi figliuoli, lo splendore della tua fama non sarebbe funesto per la sanguigna luce del parricidio. —
Quegli allora con grave lentezza, quasi avesse per nuovi pensieri calmato lo sdegno, rispose: — Quando io giá non fossi disingannato della umana gloria in questo pelago del vero, il silenzio vostro a’ detti di costui basterebbe a tale effetto. Ben mi duole che ora qui, dopo ventitré secoli, io sia costretto dal fato a rivedervi, o Romani, e ciò che m’è piú grave, a conoscervi indegni di quella eccelsa prova. — Mirò quindi con fiero disprezzo le turbe, e nell’aere si dileguò. Rimasero i suoi dolenti figliuoli, e si abban donavano piangendo sulle tombe; niuno però mostrava pietá di loro.
Tullio a me vicino declinò allora la fronte pensierosa, sulla quale si stese come nube una súbita tristezza. Tarea involto in sentenze inestricabili quell’intelletto, il quale con tanta sapienza ne’ suoi volumi avea descritti gli uffizi della vita onesta. Era la mente mia perplessa in quella recente contesa, onde con atto riverente chiesi al maestro qualche conforto delle sue eccelse dottrine. Egli penetrando la infermitá de’ miei pensieri, disse: — La piú sagace vostra speculazione sará sempre dubbiosa nel definire le umane virtú. Angusto sentiero fra voi divide l’onesto dal turpe, e sono i confini loro talvolta indistinti, variabili, e perpetuo argomento di non conciliabili sentenze. Elle non furono mai concordi fra noi se fosse grande o feroce atto la uccisione di Orazia e la condanna di Manlio. Tu medesimo, non è guari, udisti qui ancora dubbiosi gl’intelletti se Marco Bruto debba giudicarsi perfido o generoso. Quindi come in gran parte delle vostre dottrine, in quelle principalmente nelle quali si ragiona di straordinari doveri, parmi niun’altra sentenza piú sicura quanto il non affer mare. —
Cosi Tullio conchiuse, quando s’inoltravano due larve non prima vedute. L’una era di aspetto feroce, armata di usbergo e d’elmo lucenti. Stringea con la destra un coltello grondante di sangue, cosí che le stille segnavano la via. Movea gli occhi terribili, avea nera e non prolissa barba, le ciglia minacciose, le labbra anelanti, i gesti superbi e risoluti. Tenea con la sinistra la mano ad una donzella, e seco la traeva. Quella mesta lo seguiva involta in candido manto. Il collo e le braccia rimaneano gran parte nude, e i piè solo cinti da leggiadri coturni. Ella chinava il volto, al quale faceano velo i prolissi capelli. Trasparivano fra loro i dolci occhi come stelle fra le nubi.
— Questa è colei, — sciamò il guerriero, — la piú misera, la piú gloriosa di tutte le fanciulle. Ecco il ferro spietato il quale per magnanima cagione immersi nel suo cuore innocente. Io amando lei da genitore, da carnefice la svenai. Ella pur qui geme inconsolabile dopo tanti volgimenti delle sfere, perché nel fiore della sua adolescenza usci delle membra delicate disgiunta per sempre dall’amante suo, quand’era prossima a surgere l’aurora nuziale. —
Scosse allora il volto la donzella, dal quale si sgombrò la capellatura cadendo sugli omeri, talché ella apparve tutta splendida per deliziosa bellezza. Ahi che forse la mano di Seusi, di Timanto, di Apelle avrebbe tremato nell’imitare la dolce tristezza spirante da quel volto maraviglioso! Or come stringerò io lo stile per adombrarlo con umile favella? Solo posso dire che sollevò gli occhi rugiadosi, e con tenera voce profferí parole simili a queste: — Ahi trista solitudine, nella quale errando perpetuamente, il valoroso, il bene amato Icilio io non incontro giammai! Perché le mie sembianze piacquero al decemviro tiranno? Misera bellezza, la quale io stimai preziosa, poich’era grata al mio fedele, ma funesta quando eccitò scellerati desideri nel persecutore delle mie brevi contentezze! O padre, ecco la ferita, io non me ne dolgo. — Cosí dicendo con alito soave, lamentevole quasi colomba, ella mostrò nel petto verginale un’ampia ferita ancor palpitante. Quegli volse la fronte, gettò il ferro, chinò gli occhi, li ricoperse con la destra, commosso a nuovo dolore per quell’antico cimento.
Corrispondea a quel doloroso atto la comune pietá delle turbe, le quali susurravano in meste parole. Ma fra tutte uscí la voce di Marco Bruto, il quale esclamò: — O prode Virginio, quant’era piú illustre la tua impresa, se quel ferro, ancora fumante del casto e caro sangue di lei, avessi immerso nel tuo petto imman tenente! — Quegli rispose: — Il sopravvivere a lei fu prova maggiore. Io accolsi agonizante fra le braccia questa bella ed amata vergine mia figliuola, da me trafitta per cosí terribile cagione. Io dovea morire d’angoscia, ma la virtú mi sostenne a magnanima vendetta. A me, che- ogni giorno incontrava la morte nel campo in difesa di Roma, a me segnato di molte cicatrici gloriose, certo non era grave l’abbandonare una vita giá odiosa per la sciagura di costei. Rimasi a respirare l’aura contaminata, a sofferire la funesta luce del cielo, vinsi l’orrore alla vita, frenai la disperazione, stetti sulla esecrabile terra vendicatore implacabile della mia ingiuria e delle vostre. Quindi io tribuno restaurai la cittá, spensi la tirannide, e fui della vostra libertá secondo fondatore. —
S’interpose allora Tullio con benigno volto fra quelli, e disse: — Come ne’ mali corporei è piú difficile sanare i recidivi, cosí, Virginio, avesti piú malagevole impresa che Giunio Bruto non ebbe. La tua Roma per la seconda volta caduta inferma nella servitú, parea stanca, o indegna di miglior condizione. Tu però, o Marco, in ciò fosti incomparabile, che mentre in tutti i cuori era spenta ogni favilla di libertá, ne ardeva il fuoco nel tuo. E come tu sdegnasti vivere servo, cosí gravi questo valoroso ucciditore della sua figliuola perché non l’abbia seguita ne’ sentieri della morte. Ma tu lasciasti una patria divenuta oscura per sempre, e questi rimase in lei risorta a nuovo splendore: visse per compiere gli effetti della illustre sua impresa, per confermare l’utile vendetta, per morire lieto in adulta libertá. Deh non contendete, o anime eccelse, perché eguali nella virtú, foste diversi nelle sen tenze, non per altro rispetto che per le dissimili condizioni di ciascuno. — Marco Bruto, secondo l’antica benevolenza verso Tullio, rispose: — Tu mi fai di nuovo sentire la calma di que’ ragionamenti che nella vita nostra solevano spesso temperare le cure. La mente si spaziava nel pelago delle umane opinioni. Senza sdegno erano le discordie, senza orgoglio le sentenze, i giudizi moderati, cortesi le parole. Oh unica dolcezza il conversare in ozi tranquilli con gl’intelletti che fanno consonanza ad alti pensieri! — Cosí dicendo stendea le braccia a Tullio, che pure a lui porgea le sue. Ma come due nubi spinte da vento opposto si confondono in una, cosí quelle immagini si mescolavano in lotta affettuosa.
La mente mia fra tanto era fisa a quelle due celebrate donne, Lucrezia e Virginia, ambedue cagioni per ben due volte della romana libertá. Io considerava che quel popolo il quale avea tollerate, con incredibile pazienza, le oppressioni prima de’ suoi re, e poi de’ tristi decemviri, solo non avea sofferte le violenze al sesso leggiadro. La oltraggiata bellezza del quale parea che inducesse ne’ petti una estrema e ruinosa disperazione. Le stragi, i tradimenti, le atrocitá, qualunque altra piú malvagia operazione, s’era pur veduta sopportarsi con viltá ignominiosa e simile a stupidezza di giumenti. Solo per le afflitte donne si commovea formidabile senso di vendetta comune. Quindi paragonando nel mio pensiero que’ casi, considerai che l’una era celebrata da’ suoi per la morte spontanea, e l’altra avea lasciata questa fama al padre suo. Quella però a questa era inferiore nella integritá de’ costumi, perché soggiacque nel cimento, e questa lo prevenne. Pure Virginia non sembra che una colomba svenata in sagriti zio, la quale non deliberata a questo, non altro vide, non altro intese, fuorch’ella trafitta dalle paterne mani spirava fra quelle. Desta pietá costei, e terrore il padre suo. Ma Lucrezia eccitando prima i suoi alla vendetta, e poscia innanzi loro, quasi terribile patto di quella, spargendo il sangue suo, commove a flebile ammirazione. Perocché l’uccidere la figliuola innocente ha sempre del barbaro, e se pur Virginio volea tentare qualche sublime opera, potea lanciarsi contro Appio medesimo, superbo della sua dignitá, e gettarlo trafitto dallo splendido seggio. Il quale proponimento