Le notti romane/Parte prima/Notte terza/Colloquio II
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era di effetto probabile, quand’egli adoperasse, per avvicinarsi al tiranno, quella medesima simulazione con la quale potè allontanare da quello la sua figliuola. E quantunque del suo sopravvivere egli abbia addotti probabili argomenti, nondimeno in questo è piú magnanima Lucrezia, ch’ella non sostenne di vivere dopo quella odiosa calamitá, anzi con lo splendore di tal risoluzione illustrò i tristi arcani di quella notte per lei estrema. Che se pur è gloriosa atrocitá quella di Virginio, il cuore palpita di maraviglia mista ad orrore, e suona nel petto umano una voce pietosa la quale reclama contro quella fiera deliberazione, o se alquanto vi consente, giudica però terribile quella costanza per cui il padre non spirò d’angoscia sulla ferita.
COLLOQUIO SECONDO
Catone il Censore e Tullio disputano se le discipline corrompano i costumi.
Io rimanea involto in questi pensieri, quando a sé li trasse
una larva di uomo provetto, la quale inoltrandosi con dignitá,
non lungi da Tullio poi tacita si fermò. Avea il volto alquanto
rubicondo, gli occhi cerulei, le tempia calve, il ciglio folto, la fronte
austera; con la manca raccoglieva il lembo dell’ampia toga, ed
appoggiava il mento alla destra.
— Chi sei? — l’interrogò Tullio, — e di che ti duoli? — Quegli rispose: — Di due cose. L’una di avere perseguitata, con molesto e continuo rancore, la fama degli illustri fratelli Scipioni denominati Affricano ed Asiatico per le grandi imprese in quelle regioni; l’altra di avere, con ostinati consigli, indotto il Senato alla distruzione di Cartagine. —
— Ah ben ti riconosco, — Tullio sciamò, — o magnanimo Porzio Catone! — Ed apriva intanto le braccia avvicinandoglisi con rispettosa benevolenza. Quegli però stese la destra come ritroso ad uffizi sospetti d’incognita persona, e disse con voce pro fonda: — Ma tu chi sei? — Tullio rispose: — Tuo postero: nato piú di otto lustri dopo la tua morte, ma consapevole delle tue virtú come se ne fossi stato vivente ammiratore. — Non per quella urbana lode si ammolliva la severitá di Catone, il quale poiché alquanto rimase taciturno, cosí proruppe: — O Roma, che feci! Io togliendoti l’emula affricana, ti privai del bersaglio piú utile al valor tuo. —
— Confortati, — disse Tullio, — o magnanimo Censore, perocché dopo quella distruzione, quantunque piú spietata che generosa, ampiamente si diffuse la nostra dominazione con incredibile prosperitá. I despoti dell’oriente palpitarono ne’ troni gemmati. L’Affrica rimase nostra provincia per sempre umiliata dalla sua baldanza antica. Le nostre legioni pervennero alla spiaggia del pelago occidentale, solo bastevole ad impedire il corso delle vittorie loro. — Il Censore udiva meditando, e poi lo interrogò: — Ma co’ trionfi, de’ quali tu vai cosí lieto, entrarono forse in queste mura le consuetudini e le dottrine straniere, oppure manteneste la romulea semplicitá? —
Quegli rispose: — Prendemmo insieme le virtú ed i vizi de’ vinti, ma pure divenne l’Imperio nostro vie piú terribile e glorioso. L’Asia invero con le sue magnificenze deliziose temperò quella frugalitá pregiata dagli avi nostri: ma le arti maravigliose e le illustri discipline della Grecia mitigarono l’antica austeritá de’ nostri costumi. Quindi vedemmo ornati da’ portenti del greco pennello gli splendidi alberghi de’ trionfatori, e da’ simulacri eroici il fòro, le vie, i templi, insegne preziose di imprese memorande e della eccellenza di quella nobile imitazione. Allora la mente nostra, prima non sollecita di belle instituzioni, divenne bramosa di conseguirle. Quindi la eccelsa filosofia de’ Greci, la facondia loro, e tutte le soavitá delle Muse ateniesi, furono qui recate siccome la piú generosa conquista. Cosí un popolo, il quale dovea in ogni cosa rimaner superiore a tutti, giustamente non sofferse la vergogna di essere in dottrina inferiore a’ vinti. —
Disse allora Porzio: — Tu narri che le molli corruttele dell’Asia e le sottilitá della greca speculazione non furono impedimento al corso trionfale di nostra bellica fortuna. Ed io ti affermo ciò che non vidi con gli occhi mortali, ma vedo coll’intelletto, ed è che forse l’Imperio crebbe, ma certo si scemò la virtú, onde avrete combattuto in lontane provincie vittoriosi, ma non liberi. — A quella sentenza Tullio declinò alquanto le pupille come in segno di mesto consenso, e quegli aggiunse: — Io pertanto ancora mi lodo perché discacciai Carneade ed i suoi seguaci cavillosi dalla nostra cittá. Essi chiamandosi amatori della sapienza, la oscuravano con sottilitá perniziose. Pronti egualmente a difendere o combattere il vero ed il falso, era nella bocca loro divenuta meretricia la eloquenza. Quindi io son certo che quando fra voi allignò quella fallace disciplina, la quale delle umane e divine cose disputa audacemente, e le agita come onde, si spense allora negli animi vostri l’amore delle virtú, e solo vi rimase quello di voi medesimi. Imperocché la sommissione alle leggi, il disprezzo della morte, la brama di nome illustre, la persuasione della giustizia, la temperanza nella vita civile e la benevolenza nella domestica, sono effetti importanti di antiche e sapienti instituzioni. Ma il trarre l’animo da questa bella severitá alle delizie de’ sensi ed alla superbia dell’intelletto, è opera di breve tempo e di niuna fatica. Sono giá gli uomini inchinevoli al vivere molle, ripugnanti al freno della legge, pronti a lanciarsi in quanti maggiori diletti sieno loro proposti. Quindi gli artifizi delle Muse e gli ozi delle meditazioni rivolgono l’animo dalla milizia a’ trastulli, dal fòro al silenzio, dal pubblico al privato, e rendono gli uomini inutili alla patria. Immersi in cosí dolce depravazione s’intiepidisce in loro il desiderio di libertá; divenuti poi servi contenti, stringono le spade al cenno del tiranno; adunati quindi in campo siccome greggi, altro non fanno con le vittorie loro se non acquistare compagni di quella servitú. Or io son certo che tanto avvenne di voi. — Quegli tacque, e non senza qualche sdegno Tullio rispose: — Ben ti mostri quale eri in vita, nemico delle filosofiche dottrine attribuendo loro quegli effetti perniziosi de’ quali presso noi esse non furono al certo cagione, ma il cieco impeto delle discordie civili. Ed invero sarebbe un tristo fato delle nobili dottrine ch’elle fossero un odioso possedimento ed un artifizio vile; né un popolo vittorioso e grande potesse insieme essere scienziato e caro alle Muse. Eppure gli Egizi, che nascondono la origine loro nella caligine del tempo, furono celebrati come precursori e maestri di tutte le genti nella contemplazione del cielo, nella investigazione della terra, nella magnificenza delle arti. Durò la vasta loro dominazione oltre venti secoli, né l’onda del tempo avrá forse prostrate quelle orgogliose moli dove giaceano le umili insegne della morte. Furono gli Etruschi, innanzi noi, potentissima gente famosa in ogni arte e disciplina. Erano gli antichi Persi venerati per que’ loro sapienti Magi. Fu il regno de’ Siri ampio, florido e lungo quantunque amatori di studi leggiadri, specialmente sotto il benigno scettro di quell’Antioco non dal terrore ma dalla ammirazione cognominato Grande qual era. Fu pur durevole ed illustre il regno del Ponto, il quale ebbe sul trono quel Mitridate in ogni scienza tanto maraviglioso, che sembrava avesse dalla natura Timperio di tutte. Ma se tu come avverso a’ monarchi ed a’ loro soggetti, nulla pregi gli esempi dedotti da quelle tirannidi, volgi il pensiero all’oriente, e vedi l’avventurosa, leggiadra, formidabile Grecia, madre di preziose dottrine. I simulacri, le dipinture, i monumenti, la facondia, i poemi non iscemarono in lei il disprezzo della morte, né il caldo amore di libertá. —
— Giacché, — Porzio interruppe, — tu mi parli delle greche repubbliche, io ti rammento che fra loro una sola fu durevole, cioè la sobria, l’austera, la ferrea Sparta. Erano da lei sbandite le sterili speculazioni, la facondia lusinghiera, la insidiosa dolcezza de’ poemi ed ogni disciplina atta ad ammollire il petto con soavi corruttele. Ella feroce ma grande, lasciò ad Atene lo scalpello e lo stile, e strinse il brando. Quindi Atene, ad onta delle sue leggi famose di Solone denominato il Sapiente, cadde in breve sotto la tirannide di Pisistrato. E Sparta invece, la quale custodiva gelosa la sua austera semplicitá, Sparta sola fra tutte le nazioni durò piú che sette secoli costante nelle sue leggi e ne’ suoi costumi. La eloquenza stessa fu in lei nemica d’ogni orna mento, avara di parole, ricca di pensieri, grave, nuda, vittoriosa. Cosi parlano gli uomini i quali piú nel fare che nel dire pongono gli studi loro. — Tacque, volse gli omeri e si dileguò, quasi gli fosse molesto quel ragionamento. Io allora considerava come Tullio il quale, e con la voce ne’ rostri, e con lo stile ne’ volumi, non avea fra’ Romani, e forse fra gli uomini, chi lo vincesse, or fosse da quell’antenato severo, al quale era incognito, udito con orecchio fastidioso. Egli pertanto mostrava qualche tristezza per quella scortese partenza. Ma Pomponio con mansueta favella: — Onesto, — disse, — è lo sdegno tuo, perocché destato dall’amore delle chiare dottrine. Tu però il quale non altri volumi cosí spesso, né con delizia maggiore, solevi aprire quanto quelli di Platone, la eloquenza di cui ti parve quella di Giove, ben sai che esiliò il divino Omero dalla sua immaginaria cittá. — Tullio rispose lietamente: — Egli però in lei non sarebbe vivuto volentieri. Perocché se non avesse gustato, quasi alla chiara fonte, la maestosa loquela di tal cantore, Platone non avrebbe quella ampiezza di stile, quella semplicitá dignitosa e quella copia di allettamenti per la quale anche le sue talvolta inestricabili sentenze cattivano l’intelletto con grate lusinghe. Si compiacque egli pertanto di meditare una cittá perfetta, giacché alcuna tale non ne porgea il mondo ad imitarsi. Ed è pur saggiamente avvenuto che niun popolo ponesse ad effetto quelle sottilitá di perfezione, perocché la fama di tanto scrittore sarebbe esposta alle querele del volgo. —
Marco Bruto, il quale fino allora udiva tacito e modesto quel discorso come tollerante delle filosofiche disputazioni, si lanciò repente verso una larva esclamando: — O Porzia, consorte piú de’ magnanimi pensieri che delle membra, qual fu mai la tua sorte da poi ch’io caddi con Roma? — Quella rispose: — Hai tu forse creduto ch’io potessi rimanere quassú vedova dell’Ultimo de’ Romani? Scesi nelle tenebre per essere teco in quelle congiunta. Ahi vana speranza! Dopo dieciotto secoli di faticosa peregrinazione in queste caligini immense, ecco alfine io ti ritrovo! — Cosi dicendo si mescolavano con gli amplessi. Quindi Bruto prese il braccio sinistro di lei e lo sottopose al destro suo. Ella con dolcezza affettuosa, ma temperata da matronale gravitá, volgea a lui le sembianze di magnanima bellezza risplendenti. Pareano intanto ragionare, d’infinite novelle ansiosi, con illustri parole. Stava la moltitudine in silenzio, venerando quel fedele consorzio di ogni virtú.