Le notti romane/Parte prima/Notte seconda/Colloquio I
Questo testo è completo. |
◄ | PARTE PRIMA. AL SEPOLCRO DE' SCIPIONI - Notte seconda | Notte seconda - Colloquio II | ► |
NOTTE SECONDA
COLLOQUIO PRIMO
Mario ancora sdegnato
rammenta le avventure della sua fuga disastrosa.
Le grandi e straordinarie avventure ingombrano cosí le facoltá
dell’animo, che su lui usurpano un dominio prepotente. Quindi
gl’incredibili portenti, de’ quali io solo era testimonio, mi perturbavano
il cuore, ed insieme ricreavano la mente con soave contemplazione.
Del tempo ornai dimenticandosi, tutto si lanciava
l’intelletto ne’ secoli trapassati. Mi pareano sogni le cose della
vita presente, e la comune favella degli uomini abietta in paragone
di quelle immagini e di quelle sentenze, rimastemi nelle
pupille e nell’udito vive e sonanti. Molesto silenzio è il nascondere
alcun evento stupendo, il quale come grave peso opprime
il petto; ma il farlo altrui manifesto è uffizio grato non meno a
chi l’ode che a chi ne favella. E come beendo l’onda marina la
sete non si estingue, anzi cresce l’arsura nelle fauci, cosí io sofferiva
desiderio piú vivo di nuove apparizioni da che avea gustato
il maraviglioso diletto di quelle. E quantunque tal brama fosse
in me antica, nondimeno la frenava spesso considerando la sua
vanitá. Ora però era divenuta insaziabile e tormentosa. Contro
lei facea pur doloroso contrasto il timore che la prima notte di
tanto sospirati ragionamenti non fosse l’estrema. Da’ quali pensieri
come da onde sospinto, io spesso mirava quanto avesse il
sole trascorso del suo viaggio luminoso, e mi parea che lento volgesse all’occaso. Alfine si diffusero le tenebre nelle vie e nel
cielo, ed io ne fui lieto per l’ansietá di ritornare a que’ monumenti.
Oh stolto desiderio, perché irrevocabili fuggono i giorni, e ne
spingono alla tomba! Cosi le mordaci cure dell’animo fanno
ch’egli brami di perdere ciò che sospira poi sempre di avere perduto,
il tempo.
Ma quando fu spenta la fiamma del cielo, io sollecito discesi in que’ penetrali aspettando nuove maraviglie. Stetti, io credo, con gli occhi di smalto, co’ capelli simili a Medusa, col volto pallido come di chi ode sentenza di morte, invocando gli spettri. Ma lungamente e invano giá sonava la mia voce in quella solitudine tenebrosa. E però ornai privo di speranza io barcollando ritraeva i passi da que’ ciechi sentieri. Quand’ecco di nuovo splendere la consueta luce fosforica, e adunarsi con súbito concorso le giá vedute larve non solo, ma altre innumerevoli e nuove. Fra le quali agevolmente riconobbi il mio Tullio, perché inoltrandosi verso me: — Salve, — disse, — postero cortese, il quale senti maraviglia e pietá di noi, siccome ne fa manifesto indizio la nobile tua fidanza per cui qui penetrasti e qui ritorni. Ornai sembra sgombrata dal tuo petto quella molesta viltá per la quale vivendo si temono gli estinti. Vedi che siamo incorporei, non atti ad offendere, per indole e per natura, questa compage tua. Questa, la quale dopo il breve sogno che vivere si chiama, disciolta in polvere, tu rimarrai, come ora noi, purissimo elemento. Sarebbe quindi in uomo, come tu sei, ribrezzo puerile il temere noi che altro non siamo che la migliore sostanza deH’umano composto. Non queste fragili membra, ludibrio della morte, sono la tua essenza verace, ma quella facoltá per la quale ragioni, e senti, e ti attristi, e godi, e brami continuamente ingolfarti in una eccelsa felicitá. Sarebbe dunque piú conforme alla ragione che noi avessimo qualche ribrezzo di te, anzi che tu l’abbi di noi. Perocché ad intelligenze veloci, disciolte e pure, è molesta la tarditá de’ vostri pensieri oppressi dal fango delle membra caduche. —
Poiché egli tacque, io sommessamente risposi: — O mirabil consolo, e piú mirabile oratore, tanta è la dolcezza di udirti e di vederti, che invece di temere o il tuo aspetto o la tua voce, io lieto incontrerei cimenti per conversare teco, e con la tua scorta conoscere queste anime illustri, e gustare i loro alti concetti! Or dimmi: chi è quell’ampia e robusta larva la quale con fronte minacciosa e torve pupille s’inoltra formidabile, quantunque tacita ed inerme? — E Tullio rispose: — Vedi grande e crudele anima, nella quale non distingui se piú si debba lodare il valore o biasimare l’atrocitá. Egli è Caio Mario, il trionfatore di Giugurta e de’ Cimbri, né credo sará muta presso voi la sua fama. —
Io rivolsi allora gli occhi ansiosi a contemplare la sincera immagine di tanto prode e tristo Romano. Intanto egli stesso mi porse occasione di meglio considerarla, perché fece autorevole ed alquanto sdegnoso cenno con la destra, per cui sgombrò innanzi l’ampio suo petto le ombre volgari. Elle, fremendo come ruscelli, cedevano con maraviglia rispettosa. Quand’ecco Mario con fiera voce incominciò: — E dove or sei tu, Giulio Cesare,
11 quale poc’anzi turbasti i silenzi di morte accusando le imprese di mia giusta vendetta? Non ti conobbi se non fanciullo, ed ora mi è grave l’ardimento col quale insulti la gloria mia, che pur vivendo fui chiamato Nuovo Fondatore di Roma. — Si mostrò Cesare altiero, e disse: — Eccomi, ti ascolto. — Mario lo rimirava con occhi torvi, e parea frenasse la voce irata a stento; quindi proruppe:
— Una patria come questa rea di sangue, solo col sangue dovea espiarsi. Entrò in lei Siila come in cittá vanta d’assalto, ed io abbandonato dalla vostra viltá fui costretto fuggire. Solo rimase con me Geranio, mio figliastro, col quale pervenni in Ostia dove, con prospero vento, m’imbarcai. Il cielo però, emulo della instabile mia fortuna, da sereno si mutò repente in procelloso. Giá i turbini sospingevano inesorabili la nave alle spiagge d’Italia, quasi bramosi di darmi in preda a’ sicari sillani che le trascorrano come veltri in traccia di fiera. Io glorioso per magnanimi pericoli, terrore de’ barbari, difensore della Italia, nella quale il suono delle mie imprese dovea adunare seguaci ad ammirarmi e sostenermi, ridotto allora a fuggire anzi da quella come reo perseguitato, ed affidare la mia salvezza a sdrucito palischermo, evitava il patrio lido tutto sparso di traditori. Ma la crudele fortuna costrinse i nocchieri ad approdare alla spiaggia di Circeo. Ivi rimasi come tristo bersaglio di malvagio destino. Fremea sdegnato il mare, infida era la terra, funesto il cielo. Io languiva ornai d’inedia, e vacillando sulla deserta arena ora temeva, ora desiderava d’incontrare uomini in quella. Il non vederne era infausta desolazione, il vederne pericolo manifesto. E mentre io traeva il lento passo con fronte dimessa lungo la spiaggia ventosa, incontrai alcuni bifolchi, la pietá de’ quali, poiché mi riconobbero, mi avvisò che vagavano colá molti insidiatori della mia vita. E quantunque il sangue rimastomi nelle vene dopo averne sparsa la maggior parte per la gloria di Roma, fosse da lei stessa venduto con alto prezzo a’ traditori, nondimeno ottenni maravigliosa benignitá da quegli uomini i quali poteano con la mia morte far lieta la loro misera condizione. Di questa anzi si doleano, per la quale non avessero di che rifocillare le mie membra languenti. M’ingolfai pertanto nella foresta di quelle spiagge, come scaduto dalla civile condizione a vita selvaggia.
La notte giá occupava il cielo, del quale soltanto brevi spazi tra le foglie apparivano agli occhi miei. Questi ornai stanchi di veglie e di sciagure, stavano desti per la fiamma dell’ira. Il vento procelloso scuoteva co’ turbini la foresta: sibilavano tra’ densi rami i nembi indomiti, e svellevano arbori eccelsi con ruinoso impeto prostrati. Io sentiva ululare lupi, o per fame o per orrore, e scrosciare le foglie inaridite, per gli angui che strisciavano su quelle. Ma non vi muova pietá di tali disagi miei, perché ad un guerriero fu sempre la vittoria piú grata che la vita: solo immaginatevi l’angoscia dell’intelletto, l’ira del cuore, le querele disperate contro la mia fortuna e la sconoscenza vostra, le quali si dileguarono nell’aura tempestosa. Alfine l’aurora mi trasse fuori della selva deliberato a combattere con la sorte crudele. Nodrito dalla sola vendetta, m’inoltrai sulla spiaggia peregrinando verso Minturno. Ivi mi abbattei immantenente ne’ guerrieri sillani miei indefessi persecutori. Mi gettai fra le onde a nuoto, e mi rivolsi a due navi non remote per ricoverarmi in esse. Le gravi, provette, vaste, oppresse mie membra faceano a stento quell’offizio, cosí che il sommergermi era imminente. Io udiva intanto que’ sicari dal lido far voti crudeli a Nettuno ed a Nereo perché mi traessero negli abissi loro, ed invocare i mostri voraci del mare, e schernire con ribalde parole quella mia trista ansietá. Minacciavano quindi i nocchieri se mi davano ricetto, ed offerivano loro guiderdone se mi respingessero inospitali. Pur la umanitá di quelli prevalse, da’ quali fui raccolto dalle onde e ricoverato nelle navi. Non cessarono però que’ barbari di esclamare dal lido ch’io fossi respinto nel mare, talché venni costretto ad umiltá insoffribile al domatore di tante nazioni, pregare sommesso in logora scafa uomini plebei, manifestar loro il mio nome illustre, e insieme la ignominiosa mia fortuna. Pur la riverenza di quello vinse le ingiurie di questa: essi alteramente risposero non consentire a quelle inchieste feroci, e si abbandonarono al vento. Si rivolsero poscia alla foce del Liri, dove entrati approdarono.
Io scesi alquanto ricreandomi sulla ripa erbosa e tranquilla. Ma fu breve il conforto, perché vidi all’improvviso la nave in alto, onde rimasi muto per lo stupore di questa nuova perfidia. Era cosí gran delitto il sentire alcuna pietá di me, che i nocchieri, giá pentiti di averla mostrata, mi aveano abbandonato come un peso funesto. Io quantunque oppresso, non vinto dalle crescenti sventure, mi avviai fra malagevoli fosse ed algose paludi, finché pervenni al tugurio di provetto agricoltore. Il quale riconoscendomi alle sembianze piú volte vedute ne’ trionfi, benché allora oscurate dal nembo de’ mali, fu commosso dalla mia indegna condizione e mi nascose dentro una cavitá ricoprendomi di alga e di canne silvestri. Cosí Mario, al cospetto del quale fuggivano tremanti le piú fiere nazioni, rimanea palpitando sotto quel vile ingombro. Ma che non puoi, malvagia fortuna! Sopravvennero intanto gl’insidiatori, e giá io li sentiva garrire col pietoso ospite mio, perché svelasse dove egli avea nascosto il nemico de’ Romani. Oh nefande parole, ch’io stesso udiva sepolto in quella ignominiosa cavitá, né morii di sdegno per sopravvivere alla vendetta! Quindi per vie piú deludere i miei ricercatori, m’immersi nudo nella vicina palude tanto che ne rimanea fuori il solo capo ingombrato dagli arbusti di quella. Ma invano, perché scoperto immantenente, come fiera condotta in pompa da’ cacciatori, fui tratto nudo fino a Mintumo ed ivi consegnato al pretore. Non mai altra novella destò in me tanta maraviglia e tanto furore, quanto allorché ivi intesi che per decreto del Senato io come esecrabile dovea essere da qualunque giudice condannato alla morte, e chiunque potea trarmi in carcere con mano violenta.
Mentre pertanto il pretore nel suo seggio profferiva la iniqua sentenza, io chiuso in una cella tenebrosa aspettava la indegna fine della mia vita gloriosa. Tanto però una chiara virtú splende anco in oscura fortuna, che non v’era chi ardisse per me divenir carnefice in tutto Mintumo. Soltanto uno schiavo cimbro si offerse, ricordevole del sangue de’ suoi da me sparso a fiumi, ed entrò deliberato alla vendetta. Vidi nel cieco aere di quell’angusto luogo balenare il suo ferro, e quantunque io fossi inerme ed abbattuto, pure con questa voce formidabile in campo esclamai: “Tu dunque, o perfido, ardisci offendere Caio Mario?”. Al suono della quale sentenza, colui vile quanto crudele gettò il ferro e fuggi mormorando tremole parole. Narrava di poi con barbara superstizione che in quel momento splendeano gli occhi miei nella oscuritá come scintille, e la voce sonava mirabile e divina. Cosi quella pietá, la quale in ogni cuore ornai era spenta da vile servitú, si destò allora per quella stolta cagione. Perocché un tal portento, narrato dallo schiavo idiota, valse piú de’ miei trionfi, e sgomentò cosí il giudice, ch’egli temendo la vendetta de’ numi se offendesse uomo lor grato, mi lasciò all’arbitrio del mio destino. Fui quindi collocato in nave con vettovaglie e nocchieri, che mi guidassero dove loro imponessi. Intanto que’ cittadini, adunati sulla spiaggia, imploravano dagli dei perdono se mi discacciavano, costretti da crudele necessitá a non albergare ospite cosí pericoloso.
Io volsi la prora alla opposta Libia, ma la tiranna fortuna mi respinse alla Sicilia immantenente. Erano appena le mie orme impresse in quell’arena, che vi fui riconosciuto e perseguitato. Mi ricoverai di nuovo in mare, e il vento in Cartagine mi trasportò. Dovea pur quella spiaggia risonare la fama delle mie imprese, ma la prima voce che vi udii fu la intimazione di Sestilio, colá pretore, che mi vietava di rimanervi. A me sospinto da continue sciagure, scacciato da ogni lido, era ornai divenuta ogni terra inospitale, ogni mare tempestoso, e stetti muto contemplando le mine della spenta Cartagine, come specchio della fortuna. Io sovr’esse era un esempio della incostanza sua. Quella cittá, innanzi di noi reina, allora giaceva come scheletro ludibrio del vento: sedea Mario sulle pietre di quella, vilipeso, squallido, venduto. Le parole non bastavano a que’ vasti e terribili pensieri, e però un grave silenzio premea le labbra mie. Poscia io m’inoltrai lungo le calde arene anelando, ed ecco su quelle all’improvviso incontrai il mio figliuolo. Egli poc’anzi con frode rattenuto dal re de’ Numidi, si era furtivamente sottratto e andava in traccia di me con sollecitudine affettuosa.
Anche per le fiere la naturai benevolenza è dolce conforto, maggiore ne’ mali estremi, immenso allorché fuori d’ogni speranza avvenga un incontro avventuroso. Ma non per noi fu puro quel diletto, anzi da trista amarezza mescolato. Egli vedea un padre fino allora di vita splendida e maravigliosa, errante, mendico, senza patria, senza lode, senza ricovero, senza tomba. Alla quale
10 giá prossimo acquistava chi meco invano si dolesse, ed a lui rimanea la trista ereditá delle mie sciagure e dell’odio de’ tiranni Conscritti. Aspettavamo anche ogni momento di essere ambedue colti dalle insidie, vicendevoli spettatori di morte ignominiosa. Ma come quando per imminente naufragio è giá pallido il nocchiero,
11 vento si fa propizio improvvisamente, cosí fui allora confortato da non sperato messaggio, che Roma incostante si dolea delle mie sciagure. Ella mi eccitava a tentare nuovi pericoli gloriosi. Io di quelli sempre avido, e ben piú in tanta abbiezione, mi abbandonai alle impensate lusinghe della fortuna. Giunto in Italia, vi ritrovai non solo ospiti, ma vendicatori, talché in breve adunato un esercito, giunsi a queste mura e le purgai, con giusto rigore, dalla orrenda ingratitudine vostra. —