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PARTE PRIMA
terra inospitale, ogni mare tempestoso, e stetti muto contemplando
le mine della spenta Cartagine, come specchio della fortuna.
Io sovr’esse era un esempio della incostanza sua. Quella cittá,
innanzi di noi reina, allora giaceva come scheletro ludibrio del
vento: sedea Mario sulle pietre di quella, vilipeso, squallido, venduto.
Le parole non bastavano a que’ vasti e terribili pensieri,
e però un grave silenzio premea le labbra mie. Poscia io m’inoltrai
lungo le calde arene anelando, ed ecco su quelle all’improvviso
incontrai il mio figliuolo. Egli poc’anzi con frode rattenuto dal
re de’ Numidi, si era furtivamente sottratto e andava in traccia
di me con sollecitudine affettuosa.
Anche per le fiere la naturai benevolenza è dolce conforto, maggiore ne’ mali estremi, immenso allorché fuori d’ogni speranza avvenga un incontro avventuroso. Ma non per noi fu puro quel diletto, anzi da trista amarezza mescolato. Egli vedea un padre fino allora di vita splendida e maravigliosa, errante, mendico, senza patria, senza lode, senza ricovero, senza tomba. Alla quale
10 giá prossimo acquistava chi meco invano si dolesse, ed a lui rimanea la trista ereditá delle mie sciagure e dell’odio de’ tiranni Conscritti. Aspettavamo anche ogni momento di essere ambedue colti dalle insidie, vicendevoli spettatori di morte ignominiosa. Ma come quando per imminente naufragio è giá pallido il nocchiero,
11 vento si fa propizio improvvisamente, cosí fui allora confortato da non sperato messaggio, che Roma incostante si dolea delle mie sciagure. Ella mi eccitava a tentare nuovi pericoli gloriosi. Io di quelli sempre avido, e ben piú in tanta abbiezione, mi abbandonai alle impensate lusinghe della fortuna. Giunto in Italia, vi ritrovai non solo ospiti, ma vendicatori, talché in breve adunato un esercito, giunsi a queste mura e le purgai, con giusto rigore, dalla orrenda ingratitudine vostra. —