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La serpe si fermò, sollevò un po’ la sua testa civettuola, piena di curiosità e di stupore, e prudentemente si ritirò. Più tardi, gli è un grosso lucertolone verde, pesante, brutale, — un pievano, — che si avvicina al mio viso. Io sputai su di lui. Infine, osai fare un movimento. Presi il mio orologio. Segnava mezzodì. E poi, restai gli occhi inchiodati sul quadrante.

Mio Dio! come un’ora è lunga a scorrere! Un’ora? Ma la non termina mai, non passa mai. Non pertanto, la cadde anch’essa nel baratro del tempo. Quando io vidi le due sfere accavallarsi l’una sull’altra sul numero II, respirai. Era l’ora convenuta con mio cugino. Dovevo mettermi in cammino. Io fermai per cinque minuti ancora la mia respirazione, onde meglio ascoltare, poscia lasciai libero giuoco ai miei polmoni ed uscii.

Avrei desiderato che una notte eterna avviluppasse l’universo: ed e’ brillava un sole di Oriente, fulgidissimo, implacabile. Mi guardai intorno. Non un’anima. Guardai lontano. Nessuno. «Andiamo, mi dissi, cangiando d’un tratto di umore, non so perchè; andiamo dunque! E cominciai a cantare: Malbrough s’en va-t-en guerre.... en guerre.... en guerre.... ripetendo l’en guerre in tuono sempre più basso. Quindi mi arrestai corto e ridivenni timido.

Io marciavo trascinandomi quasi sul ventre, fra i vigneti e le boscaglie. Alle due e mezzo, mi fermai al sito indicatomi da mio cugino. Lo esaminai bene. L’era proprio quello. Vidi la vecchia quercia decapitata, circondata da olivi, sul piazzale della vecchia casa, a cima del monticello. Impossibile di sbagliare. Verificai che non m’ingannavo, mi assisi ed incrociai le braccia.