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210 Il nostro salario

esse, non hanno mai provato un senso di vergogna della propria vita inutile e oziosa, o vana e gaudente, davanti a questi intimi spettatori, a queste spettatrici la cui vita è invece un lavoro senza interruzione, un dovere compiuto ad ogni ora, in pagamento di un salario che non permette loro un po’ d’agiatezza neppur nella vecchiaia, dopo cinquantanni di vita sacrificata e sottomessa.

Non vi è mai balenala l’idea che noi pure siamo delle salariate, in certo modo, della società, e che, quanto più siamo favorite dalla fortuna, tanto più dobbiamo un lavoro corrispondente, proporzionato al pagamento che riceviamo?

«Se le classi superiori — mi scriveva la contessa Pasolini, — si pigliano agi e godimenti senza dar nulla in cambio, certe voci sinistre che ci risonano all’orecchio si faranno sempre più forti e numerose».

Se la serva non fa il suo dovere, la padrona non alza forse la voce?

La società, o fanciulle, è la padrona invisibile che manifesta il suo malcontento e il suo rancore contro quelli che si godono i privilegi

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