Le murate di Firenze/Cap. XXIX: Quinta veduta
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CAPITOLO XXIX.
Quinta veduta.
Nella quinta stanza stava seduto, accanto a un tavolino, un vecchietto asciutto, adusto, allampanato, sdiridito, il quale con in bocca un risolino da imbecille, gongolava e si struggeva in guardare un mucchietto di monete d’oro che aveva dinanzi. Stropicciavasi le mani, assottigliava le labbra, dava di spallette tragittandosi in mille guise, e di tanto in tanto prendeva in mano una di quelle monete, la osservava per ogni verso, e postala in vetta all’indice o al medio della destra mano ne bilanciava il peso, e soddisfatto la posava per prenderne un’altra e in simil modo sperimentarla. In tutte le sue mosse, in tutta la sua espressione era veramente ridicolo; in fronte aveva scritto — Il cacaciano.
— Questo palo in pelliccia, diss’io al genio, non deve essere un soggettaccio così perverso, come quelli che abbiamo fin qui veduti; m’ha l’aria di un barbalacchio, di un pascibietole; ditemi se m’apposi al vero.
— Non andasti errato: è un vero gocciolone, un imbecille cacastecchi tanto vano scempiato e sciocco da non potersi dire. Ha per moglie una lupa insatollabile, inesplebile, una vera e sguaiata sgualdrina, la quale facendo profitto della di lui balordaggine, sovente si finge indisposta o malata, e manda il marito istesso in cerca del di lei bertone, che è di professione medico.
Il cacaciano presta volentieri un tal servizio alla moglie, perchè lontano da sospetti, e più ancora perchè sa troppo bene che se pronto non obbedisse, la moglie s'inquieta s'arrabbia, e lo schiaffeggia e percuote senza pietà. Esso va quindi e conduce l'amico, ma talvolta accasca che il dottore anzichè brillo e albiccio, è bene avvinazzato e cotto: allora la povera baldracchina invano si dimena, s'arrabatta, si strugge, si more di farlo vivo, chè per quanto lo ammoini, vezzeggi, brancichi e stazzoni, quel pigro ronzon non si risveglia.
Oh tormento veramente tantalico! ardere, spasimar di sete, veder l'acqua, toccarla e non poterla bere! L'ardenza del desiderio la spinge ancora all'opra: rinnova le cure, nuovi ingegni tenta, gli eccitamenti raffina; e in quel rimescolamento del sangue, dalla violenza della passione trascinata, abbraccia spirando l'amato suo bene, lo stringe, bacia e traffica, lo aiuta, invita e adesca, lo scuote, anima e sprona.... oh Dio che struggimento!.... ogni sforzo è invano; che l'assonnato Pantalone dimesso sempre. mencio, tastante le sonnecchia dinanzi senza forze e senza vita.
Che vuoi vedere allora! Avvelenosa, inserpentita, inviperita, perchè dopo tanto ustolar rimasta a denti secchi, sperne da sè quell'otre di vino, e tanto imbestia, infuria, imperversa, insatanassa, che ella par proprio la versiera. Guai se in quei momenti si mostra il povero cacastecchi! Non son più schiaffi soli, ma con calci, graffi, pugni, urtoni e sbattimenti per lo modo il dicrolla, forbotta, gramola e maciulla infin che n'abbia voglia.
— Oh pazza da catena! E perchè piuttosto con lui non si sazia e sfoia?
— Ma non vedi ch’egli è lo stento in petto e in persona, e quasi lo diresti un digiun comandato? Alle smanie quella megera in quei momenti di furore altro ci vuole che il languido lume di quella sfasciata lanterna. Arrogi che, come ti ho detto, egl’ha paura di lei, e tu saprai che
A cui domina paura
Si rattrappa la ventura.
— Toglietemi una curiosità, ha figli questo balordo?
— Niente meno che quattro, due li ebbe, non prima che la signorina fosse vaga di amorose avventure, perchè ne fu sempre da che si accorse di esser donna, ma prima che si rendesse così sfacciatamente impudente nella vergognosa tresca con Pulcinella: gl’altri due viddero la luce quando già ella non voleva più d’attorno il marito, ed era da lui divisa di toro.
— Ma questi non li avrà riconosciuti suoi figli.
— Ti inganni! Li tiene in conto di figli, li riguarda e crede suoi siccome gl'altri due. Ti sorprenderà come mai diviso dalla moglie giudichi suoi gl'ultimi due figli nati, ma non sai nè puoi immaginare quanto sia facile il far calandrino questo squasimodeo. Ascolta e ridi!
Quando la signorina si accorgeva di essere incinta procurava per frutta da cena un gran piatto di ballotte, e datasi poi a cuffiarle con avidità smodata, di tratto in tratto esclamava: oh se non temessi mi facessero male quante ne mangerei! — e Calandrino la consiglia, la prega a non far spropositi, perchè non incontri che questo cibo flatulento le cagioni ingorghi, gonfiamenti e dolori; ed essa a lui; — ancora queste e po' più, ti contenti amor mio? — e seguitava così a mangiarne.
Da quelle dolci parolette Calandrino inzuccherato, argomentava che la moglie volesse seco lui riconciliarsi e si aiutava di mostrarsele tutto tenerezza e amore. Venuta l’ora del riposo, la scaltra femmina s’accostava al marito, gli prendeva la mano, lo feriva con uno di quei sguardi affascinatori, co' quali le mondane sanno così bene confondere e conquidere gl'amanti loro, indi, buona notte, gli diceva, riposa bene, cuor mio diletto; un bacio a tua moglie.
Di tali e tante insolite carezze confuso, smarrito il povero martino, si sentiva rubato a sè stesso, e rimaneva come un trasognato. Ridottosi poi nella propria stanza, colla fantasia così riscaldata, non sapeva divertir la mente dall'amata sposa, e di lei in tanta sosta entrava, che d'alcun modo poteva trovar sonno.
Poco stante ecco la cameriera ansante all'uscio del padrone; — lesto lesto accorra per carità, signor padrone, che la signorina smania, spasima, si contorce da atrocissimi dolori trafitta: essa lo chiama, lo desidera, lo vuole.
— Oh poveretto me; rispondeva Calandrino; son le ballotte, lo diceva io! Eh quando parlo io so quel che dico io! Vengo vengo, corri, dille che son da lei, — e così dicendo saltava il letto, e presto presto buttatosi indosso un mantelluccio, e entrati i piedi in due pantofolaccie, sgambava lesto lesto ed era al letto della moglie; e questa a lui:
— Deh misera me, che non volli dar retta a’savi tuoi consigli! Quelle maledette succiole m’ han messo il diavolo in corpo, e non posso posare un sol momento. Mi sento un freddo per la vita come se io fossi alla brezza notturna del gennaio; m’ho posta una coperta di lana a quattro doppi sul corpo, e non vale a riscaldarmelo: deh, caruccio, vieni e scusami di coperta, vieni a riscaldar la povera tua moglie!
— Davvero, davvero, davvero poverina! Subito, subito, subito! — e licenziata la cameriera, il gonzo pecorone era fatto coperta nell’ampia accezione della parola.
Dopo cinque a sei mesi la signorina, smucciatole un piede nel discendere le scale, e tombolata giù a mal modo per quattro a cinque gradini, aveva battute le reni, e nicchiava in letto per i dolori di parto. Ed ecco il povero Calandrino correre affannoso in traccia di Pulcinella perchè accorra alla moglie che minaccia disperdersi. Tutto nel palazzo è tramestamento, scompiglio e confusione; un andare, un venire, un correre, un gridare.... la mammana, il medico, ìl chirurgo.... lesti l'acqua al fuoco... panni caldi in pronto... questa ricetta allo speziale.... la tinozza pe'bagni.... va’presto... corri subito.... ritorna tosto....
U....èh! U... èh! U.... èh.... Evviva! La signorina si è sgravala di un bambino che vispo come un leprotto sgambetta in grembo alla balia, e vagisce e acutamente strilla, che vuol di già tettare.
Calandrino trasecola, strabilia e non sa comprendere come mai in cinque mesi n’esca fuori un bambino così compiuto e perfetto. Allora Pulcinella messosi in persona delle mani sui fianchi;— e che! declama, vi sorprende un tal fatto? Ippocrate, Galeno nelle loro impareggiabili opere ne hanno esempi ben mille di simili casi. In temperamenti sanguigni, anzi eminentemente sanguigni, come quello della signora, un tal fatto non è per nulla sorprendente e nuovo. Un soverchio incalorimento dell’utero può perfezionare il feto in un più breve tempo dell’ordinario; difatti sotto i tropici e più che mai nelle regioni equatoriali, dove le donne sono infocate, i bambini dopo tre mesi, o poco più, sentendosi scottare dalle pareti dell’utero, sgambettano, balzano, guizzano così violenti e impetuosi in seno alla madre, che rotte le secondine schizzan fuori perfetti in ogni lor parte, e vivono, e son forti e robusti quanto altri mai.
Calandrino inarca le ciglia, spalanca la bocca a tanta erudizione, e si va persuadendo che l'affare deriva netto netto dalla notte delle succiole. Ma quando poi per ultimo argomento Pulcinella assevera che nelle Pandette al titolo - de legittimate natorum - sono ricordati questi fenomeni, e addotti molti esempi di fatti consimili, il buon uomo che non vuol parer nuovo e nescio di cose tanto importanti, pronto risponde:
— Sì sì avete ragione! Or che men ricordo è un fatto avvenuto anche ai tempi dei Romani, e rammento benissimo di averlo letto; avete ragione! Mia moglie è anche troppo calorosa, che alle volte scotta, brucia, è proprio un affar serio; non sarà infocata come le donne di sotto l'equatore, ma poco meno, caro dottore, poco meno, e potrebbe benissimo anche in quattro mesi darci alla luce un bambino compiuto e perfetto. Eh, eh! Io so quel ch'io vo' dire quando dico zucca!
E stropicciavasi le mani e saltacchiava festoso, inzuccherandosi e struggendosi di compiacenza quante volte ricordava le famose ballotte. Avrebbe voluto poi trovar nelle Pandette gli esempi rammentati dal dottore, ma quella benedetta opera era scritta in latino, e il latino riusciva a lui più indigesto che le ballotte alla moglie; perciò se ne stava a detta di Pulcinella, e viveva tranquillo.
Ma se la bisogna correva liscia per Calandrino, non era così per gl'altri, i quali messi a parte dei fatti dai discorsi che faceva il gran martino, raccontando l'accidente delle ballotte, se ne faceva un chiasso, un bisbiglio, un patassio che mai per tutto il paese, donde n’eran tutti in iscandalo grandissimo. Fu perciò che i due perfidi pensarono nell'avvenire di mutar verso e di contenersi d'altra guisa. Quindi dopo due di questi fatti, la signorina non ha avuto più figliuoli, ma quando s'accorgeva di essere incinta lo palesava all'empio drudo, il quale somministrandole farmaci adatti, uccideva i propri figli in seno all'amica. Per tre volle questa sozza femmina sconciò, senza che Calandrino se ne accorgesse per niente, ma la cosa non potè andar così cheta e tacita che non ne trapelasse indizio, e qualcuno non ne subodorasse il meglio. —
— Eterno Dio! io raccapriccio di orrore, buon genio mio, e a tanta enormità mi sento il cuore trafitto e l'anima oppressa. 0h a che mondo iniquo! Almeno non lo mandassero all'Inferno questo balordo Calandrino; perchè se è vero che i diavoli abbian le corna come ce li dipingono, è certo che quando v’arrivi, i dannati vedendolo così magnificamente armato, lo direbbero il Re de' Diavoli. Partiamo, buon vecchio, anche qui ne ho avuto abbastanza. —