Le murate di Firenze/Cap. XXX: Sesta veduta

Cap. XXX: Sesta veduta

../Cap. XXIX: Quinta veduta ../Cap. XXXI: Settima veduta e fine del sogno IncludiIntestazione 26 settembre 2019 100% Da definire

Cap. XXIX: Quinta veduta Cap. XXXI: Settima veduta e fine del sogno
[p. 80 modifica]

CAPITOLO XXX.

Sesta veduta.

Fummo presto giunti all’uscio della sesta stanza, quivi mi viddi innanzi due individui. Uno di questi era un vecchiaccio fegatoso, brutto quanto il peccato; sedeva su di una scrannaccia a bracciuoli con un berrettaccio in capo così unto bisunto e di tanto sudiciume imbrattato, che altri non che soffrirlo in capo, non avrebbe potuto vederlo in un mondezzaio. Due sopraciglia folte, arruffate, soprastanti a due occhiacci iniettati di sangue e giallognoli, un naso grosso e largo con ampie e vibranti narìci, una bocca svivagnata col labbro di sotto alquanto sporto cascante e tremolo, annunziavano un uomo rozzo, selvatico, inquieto, subito all’ira e arrapinato. In fronte aveva scritta la parola: — L'avaro.

L’altro era un giovine grossolano, atticciato, materiale, un fastellone sgarbato in ogni suo atto e movenza, e senza che io avessi letta nella di lui fronte la parola: — Il materialone — lo avrei giudicato tale a sol vederlo. Teneva costui la bocca spalancata, come uno di quei mascheroni che son posti talvolta presso la Posta, nella aperta bocca de' quali si immettono e calan le lettere. Toroso il collo, tarchiato di spalle, larga la schiena, pesante e goffo in ogni parte del suo corpo, presentava l’insieme di uno di quegl’esseri, nei quali lo spirito quasi oppresso e schiacciato da un’enorme massa di materia, si rimane ottuso, rozzo, snervato e tardo. Teneva l’indice della mano destra introdotto in una delle narici, e così sconciamente vi succhiellava [p. 81 modifica]per entro, da muovere a nausea; perchè io rivolto al Genio, così lo dimandai:

— Che razza di maialaccio sgarbato è egli mai codesto giovane? — Ed egli a me: — Se non temessi nausearti fino a farti recere, vorrei dirti cosa sia capace di abboccare, biasciare, inghiottire questo guitto tangheraccio, ma di ciò vuol convenienza che io mi taccia.

Bene sta! Ditemi almeno cosa siano quei bernoccoli e quelle bozze, che coronano quella sua fronte a berlingozzi.

— Oh benedetto Dio! Disse sorridendo il genio, ma non vedi quella bocca aperta e quel muso da capocchio?

— Or bene li vedo! Ma che ha che far la luna coi granchi?

— È ammogliato.

— Perciò?

— Perciò tu mi fai il tonto per farmi versare: tu vuoi che io canti, e canterò. Quei bernoccoli onde gli vedi la fronte redimita, sono ornamenti che gli preparò e ricamò la di lui gentilissima consorte per vedere di ringentilirlo, illegiadrirlo alcun poco. Ma per quanto la poverina (agitata sempre dal grandissimo amore che porta a questo suo torsolo} s’incocciasse e incaponisse in tal proposito, e senza posare nè dì né notte, sudasse, trafelasse lavorando sempre accanita dì ripieno e di traforo, a cavo, a dentelli e a merli, e coll’ago e colle forbici, or seduta, or ritta ed or sdraiata, cavallante o cavallata, riuscisse a mettergli in pronto parecchie migliaia di questi ricami tutti di svariato disegno, fu però tempo gittato, se non per lei, certamente per lui; poiché a scuotere quella massa di materia, ben altro ci vuole che i ricami della signorina. [p. 82 modifica]Sputa fra le corna a un bue e vedrai che non se ne accorge, o accorgendosene non se ne cura, giudicando più presto quell’atto suo una carezza, una gentilezza, che un frego, un'ingiuria.

— Voi mi dite cose che io non avrei pensato mai, nonostante l'eloquenza della di lui bocca aperta e del di lui viso da stupido. Egli è dunque più zuccon dell'orso, che come lo bastonano balla: e quella bella roba di donna così sguaiata se la tien cara e l'adora?

Niente meglio! Anzi, quanto più essa lo carica, tanto meglio egli la ama: ed essa che vuol pure essere amata dal marito non si risparmia, e coglie al volo quante occasioni le si presentano per gratificarsi coll'opera dei ricami questa sua cara granbestia.

Quindi va di tanto in tanto mutando stromento e suonatore, ma la musica è sempre e sarà sempre la stessa fino a che essa sarà donna. Ora ascolta quanto avvenne a questa gentil coppia in una festa da ballo or non ha gran tempo.

— Son tutto orecchi, dite.

Correva precisamente l'ultima domenica di carnevale, e questi due sposi circa l'un'ora di notte movevano per alla volta di un palazzo, dove si dava una festa da ballo. Entrava la dama a braccetto del suo onocentauro nella sala, e culeggiando procedeva impettita, affusolata, tutta gonfia e piena di sè per quella sciocca baldanza che nelle piccole teste lieva il pensiero di sapersi ricchi. Era messa costei in gran lusso e con grande sfarzo di seriche vesti e di preziosi ornamenti. Armille d’oro finamente niellate le cingevano i polsi, le penzigliavano agli orecchi ingioiellate goccie: collane, vezzi, borchie, rosette, cammei e spilloni, le trecce le adornavano, la fronte, il collo, e il petto. [p. 83 modifica]

Spiccavasi ai fianchi dalla sottil vita, ricca di pieghe e piovente a grand’arco sopra guardinfanti e crenolini, l’ampia sottana, che accincigliata e guarnita da capo a piedi di balze, gale, frangie, trine, nastri, fronzoli, cincinnoli e gingilli, le faceva d’intorno sì vasta volta, che sotto quel busto scarzo, e svelto, pareva la cupola di Santa Maria del Fiore sotto l’agile lanterna.

Olente di muschio, come una serpe acquaiola, la superbissima signora passeggiava altezzosa e sprezzante, degnando calare appena uno sguardo schernitore sulle altre donne, che con tanta concianata pompa non aveano potuto lisciarsi ed infrascarsi. Sbalestrava briosa quegl’occhi suoi spavaldi e putti in cerca di ammiratori, e solo per invaghicchiar di sè qualche cinedo, a lui volgeva cortigianesco e furtivo uno sguardo, e con un bocchin da sciorre aghetti, graziosamente sorrideva.

Un capo ameno, scaltrito e scorto, il quale era sul ruzzo, ebbe animo di umiliare e sternere la burbanza e l’orgoglio di questa leggiera lisciarda; esso sapeva costei figlia di un paltoniere, che sebben ricco ora di molte dovizie accumulate a furia di iniquissimi furti, in sua gioventù aveva raccattato lo sterco per le strade; non poteva quindi comportare che questa figlia del fango la portasse ora tanto alta.

Recatosi frattanto in remota stanza, preparò un biglietto, e infilatovi uncinato uno spillo, nel tempo che la superba dama ballava col suo marito una manferina seppe trovar stiva di appiccarlo alla deretana parte della gran cupola, senza che alcuno notar potesse la mano che l’opera compieva.

Nel biglietto erano scritti in carattere formato i due seguenti versi:

Orsù dunque, amici, ogni cosa a luogo!
Al mulo il basto, a Messalina il truogo.

[p. 84 modifica]

Convien che tu sappia che questi due sposi, sebben da oltre due lustri uniti in matrimonio, ebber fin qui in fatto di generazione comune la sorte coi muli. Per esser giusti bisogna però convenire, che il vizio sta tutto nella mula, la quale sebben da molti largamente e di gran proposito favorita, a niuno rispose mai.

— Ho inteso a modo il vostro discorso: finite il racconto.

— Non andò guari, e il contenuto del biglietto fu da molti conosciuto: quindi, fra le donne particolarmente, era un pispigliare, un darsi a vicenda nè gomiti, un far l’occhiolino ammiccando alla signora, che non mollava mai. E, ve’ dicevano, ve’ Amalia, Lucrezia, Elisa, Bettina, Cecilia, ve’ la moglie del capitano Chic.... l’ha il cartellone guà!

E come questa pompeggiante pavoneggiandosi nel fruscio e nello strascico delle lussuriose vesti, trapassava da presso alle più maliziosette, esse sotto la bianca pezzola che sì ponevano alla bocca, schizzavano tronche risa che procacciavano avacciatamento ricoprire colla secca tosserella del dileggio.

La brigata mantenevasi in un continuo vivace e gaio berteggiare; ognuno rideva e godeva del piccante e proprio epigramma, compiacendosi dello sfregio giustamente caduto sulla superba coppia. Non ti dirò come, ma il fatto andò, che dopo qualche tempo la signora ebbe in mano il bigliettino. Lesse, e troppo ben comprese: le si affollò il petto, nelle vene le si raggricciò il sangue, le labbra per rabbia e per dispetto si morse, e per vergogna tutta di fiamma divenne in viso. Accennò al marito di seguirla, e sbaldanzita, confusa, smarrita, annichilata, si tolse a quel convegno, si ridusse in casa, e per quell’anno non comparve più mai ai balli.