Le avventure di Saffo/Libro III/Capitolo IX
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CAPITOLO ULTIMO.
Il salto di Leucate.
Giunse così la fanciulla al promontorio, e quando vi fu sopra mirò l’ampiezza delle onde, che fremevano sotto entro gli scoglj, rimanendo alquanto immota nella considerazione dello spaventevole slancio. Girò quindi gli occhi atterriti d’ogni intorno, e poi li rivolse alle memorie, ivi scolpite, di quelli che prima di lei eransi felicemente gettati dall’alta rupe. Di poi accostandosi cautamente al margine estremo di quell’abisso, stese in fuori con seno palpitante la pallida fronte, e vide con ribrezzo, che l’antico impeto delle acque, aveva corrose le radici del monte. Sporgeva il curvo sasso, quasi cadente, nel mare; e il flutto romoreggiava nella profonda pendice. Si restrinse per orrore la misera fanciulla ritraendo il passo tremante, e ricoprì gli occhi col velo, per non rimirare scena così spaventevole. Giunse intanto Rodope, non consapevole per qual fine ivi fosse la smaniosa donzella; ma però dubitando di qualche disperata risoluzione, poichè la vide accostarsi al lembo di quella profondità, abbracciolla affettuosamente, appunto quando ella retrocedeva per orrore del veduto precipizio. Saffo da lei si disciolse inquieta, sgridandola, perchè la turbasse; ma non lasciando l’ancella di trattenerla e d’esortarla: io ti prego (disse a lei Saffo) per la tua fedeltà antica, la quale t’induce ad errare meco infelice compagna de’ miei delirj, di non impedirmi l’esercizio de’ sacri riti, siccome da me vuole il Dio dominatore di queste contrade, la di cui volontà or ora mi ha rivelata il sacerdote nel tempio. Io quì debbo invocare il Nume come in luogo a lui specialmente dedicato, e dove troverò, per quanto spero, alcun refrigerio al mio insoffribile ardore. Scostati adunque alquanto, io te ne prego per la tua benevolenza e per la mia miseria, ond’io possa liberamente invocare gli Dei, ed ubbidirli. Così dicendo tenera insieme ed imperiosa, respinse l’ancella, la quale sommessa eseguì il comando, credendo alle di lei parole; e Clito seco lei tacendo si ritrasse in remota parte. Mentre eglino si allontanavano, la infelice amante rivolta al cielo, ed al mare, così dall’alta rupe sollevando le braccia, e gli occhi lagrimosi, pregò: Propizj Numi, se da voi ottengono pietà le amorose nostre pene, per certo non la potrete negare alle mie, di quante mai furono le più acerbe e le più tormentose. Ecco che io sommessa alle vendette del cielo seguo la voce degli oracoli divini, e se fu involontaria la mia colpa, mi offro spontaneamente alla pena. Che se mai queste acque saranno la mia tomba, io spero che la morte mia trarrà da quel seno, spietato come questo dirupo, alcun sospiro: o se, come imploro, io tornerò a questo lido sanata da’ miei delirj, non avverrà mai ch’entri nel mio cuore disingannato altra fiamma insidiosa, ma vuò dedicarmi al culto della casta Diana colla speranza di godere, nel sacro silenzio del tempio, gioja più tranquilla, che ne i fallaci contenti d’amore. Oh Teti accogli chi si getta nel tuo grembo! Disse correndo verso l’estremità della rupe deliberata di gittarvisi; ma giunta a rivedere quella spaventosa profondità, si trattenne involontariamente. Rodope intanto, che nell’allontanarsi, appoggiata a Clito, volgea spesso a lei sospettosamente gli occhi, quando vide quell’atto, indizio manifesto della sua misera determinazione, gridò con quanto alito le rimanea dopo gli stenti del disastroso sentiero, e subitamente mosse Clito a trattenerla. Saffo adunque veggendo scoperto il suo pensiero, e che già accorrevano per impedirlo gli affettuosi seguaci, prevenne il loro arrivo. Ma forse avrebbe nel di lei animo la timidità del sesso superati gl’impulsi della religione, se Venere implacabile persecutrice tormentandola colla sua invisibile presenza, non si fosse tratta dalle bionde trecce un ago d’oro, con cui le tratteneva leggiadramente, e col quale pungeva il cuore della misera in quell’atto, compiacendosi con maligno sorriso delle di lei smanie. E però la dolente fanciulla agitata da quello stimolo irritante, qual giumenta punta dall’aculeo dell’ape, rivolse gli omerj al mare, gittò in capo il manto, strinse le palpebre, e sospirando si abbandonò per l’indietro a capitombolo. Accorse Clito, e mirando giù nell’ampio mare, nulla vide, perchè la caduta impetuosa dall’alto, avea tuffata nell’acque la misera, che poi in breve riapparve agonizzante, e che invano luttava colle onde prepotenti. Clito è fama, che a vista così luttuosa, si gittasse in mare, spintovi dal desiderio di soccorrere lei, che sì fedelmente avea seguitata; ma vi perì l’infelice urtando nel cadere in uno scoglio insidioso mal coperto dalle acque. Rodope accorsa più tardi e vacillante, vide appunto risorgere dal flutto la sventurata signora, e poi richiudersi su di lei l’estrema onda crudele. Alla qual vista dolorosa, priva de’ sensi ella cadde sulla sterile rocca, e Saffo intanto sommersa nel fondo avverò l’infausto oracolo, che avrebbe estinto il suo tristo amore nelle acque di Leucate. Che se per altri fu quel salto più avventuroso, (siccome ne facevano testimonianza le memorie ivi incise) per questa fu estremo, perchè a lei non serbava miglior conforto la implacabile vendetta di Venere. Se pure non v’ebbe anche parte, qualche funesta incredulità nell’animo della fanciulla, che si trattenne al primo slancio, dovendosi considerare, che il sacerdote le avea chiaramente espresso, che il maggior pericolo dello spaventevole esperimento proveniva dalla dubitazione. Ma forse qualche ingegno più audace, esaminando le dubbiose parole di Stratonica, scoprirebbe in quelle una fallacia insidiosa, per cui dovevansi in ogni evento verificare. Perchè morendo nella prova (come era quasi certo dover accadere a fanciulla inesperta del nuoto) ella, pur troppo, estingueva nelle acque la face d’amore; e resistendo, per incredibile evento, all’impeto loro, il ribrezzo dell’immersione, l’orrore dell’evitato pericolo, avrebbero richiamata la mente a più sani pensieri. Comunque siasi, te misera o Saffo fra gli amanti, la quale vivendo non ottenesti alcuna utile pietà dal tuo barbaro tiranno, e solo fosti compianta in morte con tarda ed infruttuosa commiserazione! Che se alcuno giammai versò lagrime sincere sul tuo misero fato, io son quegli il quale per la prima volta avendo svelate a’ posteri tutte le tue infelicità, le ho non meno prima di tutti, che più di tutti comprese.
Raccolsero il giorno seguente, i servi del tempio, l’estinta spoglia, gettata sul lido dal fluttuante mare, e l’onorarono di sepoltura. Quindi i Mitilenesi alzarono ivi, per pubblico decreto, magnifica tomba colla inscrizione del caso, ed eressero nella patria quella di lei statua, che tuttora si vede. La crudele nuova della quale avventura abbreviò i già provetti giorni de’ genitori, e rattristò quelli di Eutichio, quantunque per benignità del cielo, e per di lui natura così tranquilli e sereni.
Fine delle avventure di Saffo.