Le avventure di Saffo/Libro III/Capitolo IV
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CAPITOLO IV.
La poesia.
Mentre in tal guisa viveva Saffo in quella placida solitudine co’ scelti amici dell’ospite affettuoso, venne risposta di Scamandronimo ad Eutichio, in cui molto lo ringraziava della amichevole accoglienza di sua figlia, la quale affidava intieramente alle di lui cure, perchè la inducesse a ritornare in Mitilene con animo meno perturbato, procurando nell’istesso tempo di ricoprire la biasimevole cagione della fuga. Scrisse non meno alla figlia con discrete parole, per non esacerbare un cuore già così vulnerato, ma insieme con dolci rimproveri. Intanto non giungevano novelle di Faone, la qual tardanza a lei spiegava Eutichio molto verisimilmente, perchè in altri lidi fosse approdato, siccome esigevano le varie di lui faccende. Perlochè la fanciulla consolata in parte nel vedere, che Scamandronimo istesso mostrava qualche pietà de’ suoi errori, e che Eutichio la sentiva manifestamente, incominciava a scusare se medesima, non comprendendo che la gravità istessa del di lei fallo induceva entrambi alla compassione. Si aggiungeva a questo fallace conforto anche l’assenza dell’oggetto amato, il quale benchè ella bramasse così impetuosamente di rivedere, pure ogni giorno si avvezzava, in qualche modo, ad esserne priva. Altronde la frequente lettura, che si faceva ne i tranquilli alberghi, quando l’ombre della notte vi avevano radunata la ospitale società, ora di antiche storie, ora di poeti, e principalmente di Omero, inspirava nell’animo di lei a grado a grado uno squisito senso di metrica armonía, e già ripiena di ricchissimo argomento di versi, qual è l’amore, compose nel silenzio della notte quel celebrato Inno a Venere.
Oh Venere immortal, figlia di Giove,
Fra i sorrisi del ciel, come ti alletta
Il tristo pianto che nel sen mi piove,
Misero segno della tua vendetta!
Tempo già fu che i miei sospiri in cielo
Giunsero a penetrar, ed or sovente
E così indarno io piango e mi querelo,
Che non v’è Nume in ciel per me clemente.
Tempo già fu che vidi al carro avvinte
Le colombe veloci in mezzo a’ venti
Spiegar l’ali per man d’Iride pinte,
E tu stessa guidarle. Ancor rammento
Il divino splendor di tue pupille,
E il pronto allora ed or negato riso.
Belle luci di Amor vere scintille,
Labbro che cangia averno in lieto eliso!
Pur quel labbro dicea: Perchè deliri
Misera Saffo, la tua mente oscura
Discernere non può che fra i martiri
Presenti cela Amor gioja futura,
Che se da te rivolge il piè fugace
Quell’ingrato garzon che ti ha delusa,
Tempo verrà che all’orme tue seguace
Quei prieghi t’offrirà ch’oggi ricusa.
Così dicea tuo labbro: e s’è fallace,
Negletta Saffo che sperar presumi?
Del garzon la ripulsa fu verace,
E per tuo inganno sono infidi i Numi.
Lo cantò quindi il giorno seguente a’ commensali, accompagnandolo colla cetra; e quelli io non so dire se l’ascoltarono con maggior diletto o con maggior maraviglia, perchè concorrevano, il canto, la voce, la perizia del suono, l’armonía de’ carmi. Per lo che, accesi gli animi da’ rari pregj di così divino ingegno, pregavanla di comporre quando su di un soggetto e quando su di un altro; ed essa per lo più improvvisamente, siccome involontario organo di Febea inspirazione, formava senza sforzo alcuno, piacevoli versi su le proposte materie. Ella medesima non si maravigliava meno di se stessa, come quella, che non mai aveva tentato da prima il sentiero di Pindo, perchè quei due versi, che profferì a Faone gettandogli il mazzo de’ fiori, poco furono ascoltati in quel tumulto, nè di poi ella ne avea composti, disgustata dalla sventura di quelli. Ma il sincero applauso, che questi ottennero, le fece ragionevolmente credere, che quanto Venere le era contraria, altrettanto le fossero favorevoli le muse; e però stimolata non meno dalle ripetute lodi, che dalla interna vampa, che pure sembrava esalando in lamenti poetici alquanto calmarsi, compose quell’altra sua chiarissima ode a Faone.
Felice al par de’ Numi chi d’appresso
Ascolta il dolce suon di tua favella:
Più felice di lor, se gli è concesso
Destar su quella
Bocca il soave riso..... e che ragiono,
Se ragion più non ho! la prima volta
Che ti vidi rimasi come or sono
Misera e stolta.
Chiuse il silenzio le mie labbra, aperte
Solo a i sospiri: e sol per lor faconde,
D’ogni altro favellar furo inesperte.
L’amor m’infonde
Sottil fuoco vorace entro le vene,
Mi benda gli occhi, più non odo, sento
Che vivo ancor, ma vivo delle pene
Coll’alimento.
Scorre per le convulse membra il gelo
Delle stille di morte, io mi scoloro
Siccome il fior diviso dallo stelo:
Ecco già moro.
Oh, benchè estremo, avventuroso fiato,
Se giunge ad ammollir quel cuor spietato!
Questa ch’io dico ode a Faone, ben so che altri asseriscono dedicata ad una fanciulla da lei amata con disdicevole delirio. E tanto crebbe questa fama contraria al nome di così leggiadro ingegno (forse promossa dalla invidiosa malignità de’ garruli poeti), che fu asserito da taluni, come prima dell’infelice amore ch’io descrivo, ella fosse stata immersa in dissoluti costumi, a segno che le rimanesse l’ignominioso titolo di Τριβας. Di questo infelice traviamento dalle naturali inclinazioni, ne danno anche taluni degli indizj particolari nominandone i turpi oggetti, e però scrissero i nomi di Attide, Telesippa, Megara, Anatoria, Cirene, e Mnai. Aggiungono in oltre che prima delle avventure con Faone ella era vedova di un cittadino di Andro, da cui ebbe una figlia che chiamò Cleide col nome materno, e che non soltanto delirasse per il Lesbio garzone, ma eziandio per un certo Pirino, ed un altro, al quale attribuiscono il nome di Cidno. Ma di queste obbrobriose notizie, io non ritrovai memoria nè fama in Mitilene. In oltre, quando mai così misera donna avesse traviato ne’ suoi delirj, converrà non dimenticarsi, che Venere istessa avvelenava un cuore da lei scelto a saziare le sue vendette. E finalmente egli è certo, che furono per lo meno due fanciulle rinomate coll’istesso nome di Saffo; perchè una fu della città di Ereso, e questa di Mitilene, le quali città sono entrambe situate nella medesima isola di Lesbo; e per una strana combinazione furono tutte due poetesse, attribuendosi alla Saffo di Ereso la invenzione del plettro, e molti epigrammi, jambi, elegie, e commedie. E però confrontando la varietà delle tradizioni, sembra, che siensi confuse quelle, che appartengono ad una, con quelle che appartengono all’altra. Gioverà nondimeno per salvare il nome della nostra Saffo, e la favorevole memoria de’ Mitilenei, de’ quali io mi dichiaro fedel seguace, e gli onorati monumenti eretti a lei per decreto pubblico, siccome si vedrà nella fine dell’opera. Imperocchè non è verisimile, che venisse così celebrata, se fossero stati indegni i di lei costumi. Queste, ed altre composizioni non furono però soltanto premiate con giusta lode dagli ospiti di Eutichio, ma ben presto spargendosi, ottennero quella di tutta la Grecia, e per quel metro da lei ritrovato come per ispirazione divina, furono detti Saffici tal sorte di versi.
Or potrà quì considerarsi (quando non si voglia ascrivere immediatamente a dono celeste la facoltà poetica) da quale natural cagione si eccitasse nell’animo di Saffo così straordinaria inclinazione al metro senz’arte o disciplina, e senza rivolgere i volumi allo splendore della lampada ne’ silenzj notturni. E la prima di tutte certamente io stimo, che fosse quella chiamata instinto; vocabolo che denota natural disposizione, la quale si manifesta cogli effetti, rimanendone occulto l’interno principio; la seconda però, e speciale cagione in lei fu questa, se non erro, ch’ella ebbe vera e non finta materia de’ suoi versi, onde n’è avvenuto, che tanto candidi e sinceri sieno nelle loro espressioni. Ed in vero quando immaginate o solo verisimili sieno le materie trattate da’ poeti, e dagli oratori, sempre traspare in quelle opere la originaria loro falsità, siccome nelle tavole dipinte un occhio perito distingue i ritratti dalle ideali fisonomíe. Nessuno potrà mai invero così energicamente esprimere alcuna passione, quanto colui che la porta nell’animo; onde è che anche le rozze lingue divengono sublimi nelle estreme angosce, e tenere negli affettuosi delirj, quando che rimangono fredde e inanimate le opere de’ più colti ingegni, allorchè scrivono con artificiosa imitazione. Non vi sono, io credo, più soavi idilj di quelli, che formano dialogando gli amanti felici allo splendore della placida luna su le sponde del mare tranquillo; nè vi sono orazioni più impetuose di quelle profferite da’ soldati imperiti di ogni eloquenza nel tumulto delle pugne; ma sì di queste, che di quelli non rimangono le memorie, poichè gli inni si formano ne’ segreti misterj lungi dalle orecchie e dalla vista d’importuni testimonj, e le altre se ne fuggono nelle aure insieme dileguandosi col fischio de’ dardi e co i lamenti di morte.