La sottana del Diavolo/Un bel caso
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Un bel caso.
Era la Luigia una spilungona senza garbo nè stampo che sembrava tagliata coll'accetta, uguale dinanzi come di dietro e per tale sua conformazione soprannominata dai maligni del paese: a due dritti. I maligni uomini si intende, perchè le donne non avendo nulla a temere da lei le tributavano volentieri molti elogi sulle sue qualità di buona massaia e giungevano pur anche a difenderla quando le beffe passavano la misura. Infine - dicevano con uno slancio di generosità - non è poi così brutta come si vuol far credere; ha dei magnifici capelli.
Ai capelli della Luigia peraltro non si attaccava nessun farfallone. Quantunque ella avesse cantato chi sa quante volte in coro colle sue compagne «Non c'è sabato senza sole, non c'è donna senza amore» per esperienza propria non poteva far testo. I giovinotti non la guardavano nè tanto nè poco, non la aspettavano sul sagrato all’uscire di chiesa, non zufolavano sotto alle sue finestre, non le offrivano in primavera un sol fiore nè in autunno un sol frutto. La Luigia era come fuori del suo sesso, una specie di essere neutro intorno al quale non fremeva l’onda tumultuante del desiderio. Appena qualche buon uomo maturo, qualche padre di famiglia mosso da un benevolo sentimento di compassione osava profetizzare: — Sarà ben fortunato colui che sposa la Luigia! — Ma nemmeno questo incoraggiamento indiretto valse alla povera ragazza la più lontana ombra di un sospirante. Toccava oramai, anno più anno meno, la quarantina.
Forse però tanto i maligni quanto i benevoli si ingannavano sul vero stato d’animo di quella zittellona triste e spersonita, argomentando a modo loro che dovesse trovarsi infelice per mancanza di marito e solo per questo. Ora la Luigia aveva una passione ancora latente e compressa ma unica ed immensa: i bambini; passione che si allaccia è verissimo col matrimonio ma che ha pure un suo lato indipendente, una vitalità propria che non tutti gli uomini conoscono.
Fin da quando, giovinetta appena, attardandosi lungo la strada sua madre la rimbrottava: — Luigina, Luigina, lesta, perchè non rientri? — novanta volte su cento ella si era, per dirla con una pittoresca espressione popolare, incantata dietro un gruppo di bimbi ammirando di questo i ricciolini, dell’altro gli occhioni, di tutti la sovrana incosciente innocente malìa.
Guardarli, accarezzarli, ascoltare i loro primi balbuzienti cicalecci, assistere ai loro giuochi, scoprire le loro ingenue malizie, era per la Luigia un piacere senza confronti. Quel cristallo tremulo delle loro pupille così piene di curiosità e di candore, quella intatta freschezza delle boccuccie dove i denti si mostrano appena piccoli e bianchi come goccie di latte, quelle guancine che sembrano fatte di petali di rose, quei corpicciuoli imbottiti di velluto con un lontano sentore di borraccina e di piume d’uccello, tutte le grazie, tutti i sorrisi, ed anche e soprattutto le lagrime e le disperazioni di quel piccolo mondo in miniatura, le creavano intorno una fonte inesauribile di osservazione e di tenerezza. Ella, se avesse potuto, ne avrebbe presa una bracciata nel grembiule e se li sarebbe portati a casa per gioia e consolazione della sua solitudine poichè non aveva più nè padre, nè madre, nè nessuno.
Fu in quel torno dei quaranta o giù di lì che si sparse in paese la notizia strabiliante del matrimonio della Luigia. Per quanto sulle prime molti fossero gli increduli dovettero pure arrendersi all’evidenza del fatto quando il signor curato bandì dal pulpito il matrimonio di Luigia Peregalli con Battista Fenile detto Battistin del Fico.
E pazienza la Luigia che poteva dirsi giovane e bella in confronto di quella figura da presepio del Battistino, più piccolo di un terzo e rattrappito come un ceppo di vite secca, bolso per giunta da sembrare appena alzato dal letto una vecchia rozza reduce dal mercato. Chi si sarebbe mai immaginato un matrimonio simile! Proprio vero — dicevano i maligni, fra cui questa volta anche le donne — che ella ne schiattava dalla voglia.
Il vero perchè invece lo sapevano appena loro due, che quando Battistin del Fico essendosi addormentato una volta colla pipa accesa nella tasca del pastrano bruciacchiandolo mezzo e la Luigia sua vicina di casa si era gentilmente offerta per i debiti rattoppi, l’idea era subito balenata alla mente dell’uomo. Che cosa facevano così solitari uno da una parte e l’altra dall’altra? Non era meglio mettersi insieme per la comune assistenza? A tale proposta la zittellona aveva cominciato a nicchiare protestando che il suo tempo era già finito e che se mai avesse potuto acconsentire a nozze ciò sarebbe stato solamente per avere dei bambini, il che non le sembrava più del caso. Ma la dichiarazione fece scattare Battistino suggerendogli una quantità di argomenti per persuadere la ritrosa che tutto è possibile coll’aiuto di Dio e che non bisogna mai disperare della provvidenza. Aggiunse che se dopo la prova di un anno il Signore non avesse benedetto la loro unione egli si impegnava a prendersi in casa un trovatello adottandolo qual figlio. Questo fu proprio il peso che fece traboccare la bilancia dalla parte del matrimonio, il quale si compì pochi mesi dopo con grande serietà e serenità dei due contraenti.
Non un anno poi ma ben quattro o cinque attesero gli sposi la benedizione del Signore e sempre invano finchè una sera d’estate, mentre prendevano il fresco seduti entrambi sulla soglia della porta, la Luigia ricordò al marito la sua promessa di adottare un trovatello e Battistin del Fico dopo essersi fatto pregare un poco volle accontentarla pensando che alla fin fine si apparecchiava un aiuto per la vecchiaia.
La felicità della Luigia quando ebbe fra le mani un pargolo tutto a sua disposizione per le dodici ore del giorno ed anche per le dodici della notte fu qualche cosa di inaudito. Ella ne ringiovanì come per prodigio, fu vista a correre, la udirono cantare, e le venne una tale parlantina che le donne del vicinato a stento si potevano schermire dal sentirsi ripetere continuamente le meraviglie del piccino.
Già ella non lo chiamava mai altro che «mio figlio». Sembrava che queste due parole giacenti da tanti anni in fondo al suo cuore e sbocciate a guisa di semi tardivi volessero rifarsi del tempo perduto con una fioritura veemente di steli e di boccioli, di aggettivi ammirativi e di tenerezze iperboliche. Tutto ciò che l’amore più intenso si trae dietro di ardore affannoso, di cure gelose, di mirabili previdenze, di rinuncie, di dedizioni, di sacrifici, quella madre putativa tributò al frutto del suo lungo desiderio. Ella ebbe la soddisfazione di salvarlo per miracolo da un braciere dove era caduto e più tardi di guarirlo a furia di attenzioni da una scarlattina dichiarata mortale.
— Come si fa alto il vostro bambino! — le disse un giorno un merciaiuolo ambulante che lo aveva veduto l’anno prima. — Vi somiglia.
A queste parole la Luigia arrossì tutta e si sentì balzare il cuore nel petto. L’idea che le assomigliasse davvero incominciò a impossessarsi di lei dandole un turbamento profondo e delizioso. Una volta che il piccino le buttò graziosamente le braccia al collo chiamandola mamma, ella se lo strinse al seno con impeto selvaggio mormorandogli dentro ai capelli:
— Viscere mie!
Oramai ella prendeva posto nei crocchi delle matrone dove si parlava di gravidanze, di parti, di bimbi nati e nascituri, di cibi speciali per le puerpere, delle prime pappe da darsi ai bambini slattati, e la sua parola appassionata e persuasiva dominava tutte le altre. Spesso i suoi discorsi incominciavano così: Io non ho che un figlio solo, tuttavia....
Ed ognuno in paese ripeteva «il figlio della Luigia» tanto che i giovani, gli ultimi arrivati, i distratti, non dubitavano neppure che egli fosse veramente suo figlio. La cosa era poi di mediocre importanza per il pubblico.
Ma quando il garzoncello giunto ai sette anni fu mandato a scuola dove non sempre riportava i primi punti, ed anzi il quaderno delle classificazioni riempivasi troppo sovente di note di biasimo, la Luigia si disperò sul serio gridando che nella sua famiglia non vi erano mai stati discoli. Una signora che era venuta quell’anno a villeggiare nel paese la calmò dicendole che buon sangue non mente; quindi si desse pace, col tempo e colla pazienza il monelluccio non avrebbe mancato di divenire così bravo e dabbene come la mamma sua. Questo ragionamento persuase la Luigia, la quale di suggestione in suggestione se ne venne a credere fermamente di averlo ella stessa messo al mondo; e siccome pare che basti una gran fede per trascinare la gente, nessuno si metteva a contradirla quando ella enumerava le somiglianze che il fanciullo aveva sia con lei sia con Battistin del Fico, passato a miglior vita già da qualche anno.
Molte leggende non hanno una base più solida.
Intanto il garzoncello era diventato un giovinotto ed essendosi messo a bottega da falegname nella città vicina vi aveva preso moglie, portandosi in casa naturalmente la sua buona mamma che potè dire questa volta di essere entrata in paradiso prima del tempo, perchè tutti gli anni nasceva un pargoletto e innanzi di andare a raggiungere Battistino nell’altro mondo ebbe la compiacenza di contarne undici, sei maschi e cinque femmine.
Quando finalmente venne anche per la Luigia il momento di rendere l’anima a Dio, avendole il medico domandato se ella avesse fatto parecchie malattie «Nessuna — rispose — tranne quando nacque il mio figliolo che stetti tre giorni fra la vita e la morte».
Come dubitare che ella lo dicesse sul serio poichè aveva le mani congiunte sul crocifisso e gli occhi rivolti al cielo?.... Il sogno di tutta la sua vita era diventato la sua realtà.