La scapigliatura e il 6 febbrajo/XVII
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CAPITOLO DICIASSETTESIMO.
Il sei febbrajo.
Gli antichi, maestri egregi nell’arte di dare una forma sensibile alle passioni e al dolore, raffigurarono cangiata in sasso la misera Niobe, a cui la vindice Dea aveva trucidata la prole.
I moderni romanzieri, per togliersi dall’imbarazzo, e per chiudere degnamente il capitolo, fanno svenire molto volentieri i loro protagonisti, e cominciano poi il susseguente colla solita formola:
“Quando Arturo — o Armando — o Alfredo — fu tornato in sè, volse gli occhi intorno, ecc. ecc.„
Nella Fanny — il romanzo dalle 28 edizioni, che da’ critici diversi fu chiamato, a vicenda, poema ed obbrobrio, capolavoro ed aborto — il protagonista, un certo Roger, ha la bontà di svenir quattro volte in sei o sette pagine...
Poverino! Una pagina e mezza per svenimento!
Così pressapoco degli altri.
Ora, dico il vero, pensando a questa morbosa sensibilità di fibre, ho paura che, a’ miei lettori assuefatti a leggere romanzi francesi, non faccia brutto effetto quello di vedere che Emilio, dopo l’orrenda scoperta, si sia accontentato di cadere come attonito sopra una sedia, senza perdere i sensi; nondimeno, la verità innanzi tutto, anche a costo di far sembrar troppo freddo e ragionevole il mio protagonista.
Il professore Bartelloni — mentre il vecchio Firmiani porgeva aiuto a Noemi nell’attiguo stanzino — tornò sollecito verso il misero giovine... e sollevatolo di là, lo condusse nella sua camera per toglierlo dalla vista della partenza di colei che egli doveva perdere per sempre.
Inerte, colla testa chinata sul petto, colle braccia cadenti lungo il corpo, Emilio si lasciò condurre dal buon vecchio, senza opporsi, nè prestarsi in alcun modo, senza dir una sillaba in risposta alle parole di conforto ch’ei gli dirigeva, senza spargere una lagrima sola. E il professore, spaventato da quella profonda atonia, mormorava di quando in quando:
— Eppure era necessario; era necessario!
Emilio seduto nella sedia a bracciuoli che conservava ancora, per così dire, il calore e il profumo della sua amante, stette più di due ore in quello stato di assoluta prostrazione, nel quale si sarebbe detto che non avesse neppure la coscienza del proprio dolore.
Ma poi, tornando la mente a poco a poco all’usato ufficio, l’orribile gruppo di idee, che gli formicolavano confuse nel cervello, si sciolse, ed il misero giovine, gettatosi nelle braccia del suo tutore, scoppiò in un dirotto e disperato pianto.
Allora cominciò la passione.
La sua sciagura gli si spiegò dinanzi in tutta la sua fatale verità, e gli straziò l’anima con un misto di rimorso, di orrore e di disperazione...
V’hanno dei dolori così sterminati che basta annunciarne la causa per averli descritti. Trovare il padre... per sapere d’averlo disonorato! Amare passionatamente una donna, e perderla per sempre... irremissibilmente, senza averne colpa... e, più ancora che perderla, sentir ribrezzo del proprio amore come d’un delitto, come d’un incesto! Se Noemi fosse morta il suo strazio non sarebbe stato così fiero; ... ma saperla viva, chissà come soffrente, e non doverla mai più rivedere; e sentirsi distaccato da lei da una fatalità ineluttabile; e dover quasi rinnegare anche il passato amore!
Una parola sola aveva spalancato un abisso fra lui e Noemi: ... ella, ch’egli amava ancora disperatamente... era divenuta a un tratto la moglie di suo padre.
Così in un colpo lo sventurato s’era veduto troncare tutte le speranze e le illusioni della sua vita desolata. Una fredda disperazione gli invadeva il cuore e vi faceva un vuoto tremendo. Che cosa gli restava al mondo? Un amore impossibile, un’intollerabile rimembranza, un supplizio senza fine...
— Meglio è morire! — diss’egli; e già stava per cercarne il mezzo, quando a un tratto un colpo di fucile, e un frastuono di armi, di grida, di evviva e di bestemmie, che gli giunse all’orecchio dalla via, gli fe’ alzar vivamente il capo e tender l’orecchio. Alla prima fucilata ne tien dietro una seconda, e una terza... Emilio balza in piedi; corre alla finestra; ne spalanca le imposte, guata verso la parte donde ascolta venire quel rumore di guerra, e vede passare, giù lungo il corso, attraverso lo sbocco della sua deserta contrada, una frotta di soldati austriaci cacciati a furia da un drappello di popolani armati di stili e di sciabole.
In questa, ecco il primo squillo d’una campana vicina, seguito da una tempesta di rintocchi affrettati, che si spandono nell’aria tranquilla, come un suono di minaccia e di pericolo.
— Campana a martello! — sclama Bartelloni che s’era levato anch’egli, e s’era messo alla finestra a fianco di Emilio — Che vorrà mai dir ciò?
Il giovane, che, immerso nel dolore della sua privata sciagura, aveva tutto dimenticato, si ricorda ad un tratto d’ogni cosa... e volgendosi al suo tutore colla fronte raggiante e gli occhi infiammati:
— È l’ora! — sclama — Benedetto chi ne ebbe l’idea! Là... si combatte e si muore... Addio, mio buon tutore... Se vinceremo, forse mi rivedrete; ... se no, pregate pel vostro povero amico... pel figlio vostro; ... questo sarà l’ultimo suo bacio.
Così detto, piangendo strinse fra le palme la testa del buon vecchio, e impresse un caldo, amorosissimo bacio su quella veneranda canizie; ... poi fe’ per spiccarsi da lui.
Il tutore, all’udir quelle parole disperate cercava di trattenerlo cingendogli la vita colle braccia:
— No, lasciatemi, lasciatemi! — gridò Emilio. E svincolandosi energicamente uscì a forza da quell’abbraccio, e ributtato contro il letto il buon vecchio, aperse a precipizio l’uscio, attraversò come un lampo l’anticamera e mosse a salti giù per la scala.
Il professore, quantunque per la sua età agile ancora, perdè la speranza di tenergli dietro fin dal primo gradino. Pure risoluto a non lasciarlo solo e sperando di raggiungerlo più lungi, uscì anch’egli in istrada, e mosse frettoloso verso il luogo donde gli giungeva un rumore di battaglia.
Veloce come turbine Emilio si era slanciato a corsa nella via deserta, finchè, sboccato sul corso di Porta Comasina, vide quattro popolani che stavano ergendo una barricata. Un omnibus, che era giunto in quel luogo al trotto lento de’ suoi due ronzini, trovato l’ostacolo, aveva dovuto arrestarsi; uno di quei quattro animosi, che teneva in mano un coltellaccio, aveva tagliate le tirelle dei cavalli, e fatto smontar il cocchiere gli comandava di allontanarsi. I viaggiatori che si trovavano nel carrozzone ne erano già discesi spaventati, e si sparpagliavano fuggendo nelle vicine contrade.
— Un’arma! datemi un’arma! — grida Emilio ad uno dei quattro insorti, tendendo le mani vuote.
— Viva il signor Digliani! — gridò uno di essi mentre rovesciava l’omnibus attraverso la strada.
— Ecco l’arma; — disse un altro porgendogli una sciabola — Noi lo aspettavamo. Laggiù avranno bisogno di lei; non sono che in venti.
— Grazie, Lisandro! — rispose Emilio che aveva riconosciuto, nel popolano che gli parlava, il compagno dello Spadon dei dodici.
E senz’altro aggiungere scavalcò la barricata e ripigliò la corsa verso il Ponte Vetro.
Quando egli giunse sulla piazza, la lotta corpo a corpo era già impegnata fra una cinquantina di soldati e non più di venti cittadini che si battevano disperatamente colle poche e deboli armi di cui erano muniti. Parecchi cadaveri stavano già distesi al suolo. Emilio colla sciabola stretta nel pugno, come pantera che si fa più feroce all’odore del sangue, si gettò sul primo Austriaco che gli si parò dinanzi, il quale alzato in alto il fucile a guisa di mazza, stava per calarlo sulla testa d’un patriota che gli volgeva le spalle; e menatogli un terribile fendente gli tagliò netto un braccio.
Udendo il grido che mandò il ferito dietro di sè, il minacciato volse il capo, e presso il Croato che cadeva a terra, vide Emilio da cui era stato salvato e riconoscendolo:
— Ah tu pure! — grida — Viva i sette! Io ti aspettava. Viva Emilio!
E con un sublime sorriso si volse nuovamente a combattere.
Era Niso Piertini.
I Tedeschi, quantunque tre volte più numerosi, non vedendo arrivar alcun soccorso, cominciarono a gettare le armi e a fuggire.
Emilio e Niso animando i combattenti compagni si diedero a inseguirli; parecchi ancora ne trucidarono alle spalle; a quelli che si volgevano, cadendo in ginocchio e chiedendo grazia, toglievano l’arma, poi li scannavano miseramente sul posto. Era in essi un delirio di strage...
Così inseguendo i fuggiaschi arrivarono sulla piazza del Castello. Appena che i Tedeschi videro quelle mura di salvezza levarono alte grida unanimi per chiedere soccorso; ...ma non avevano dato dieci passi sulla spianata che un altro drappello d’insorti uscì correndo da una contrada laterale, e gettandosi fra essi e la porta del forte, precluse loro lo scampo. Alcuni s’arrestarono, e sopraggiunti da quelli che li inseguivano colla punta delle armi ne’ fianchi, lasciarono sul luogo la vita; gli altri si sbandarono nella vasta piazza.
Intanto quel secondo nucleo di insorti, comparso improvvisamente sul fianco del castello, si dirigeva a corsa verso la porta di esso coll’audacissimo pensiero di assaltare il presidio che, ancora ignaro di tutto, non si guardava menomamente. Erano una trentina a dir molto, e fra tutti avevan tre fucili; gli altri, stili e stocchi.
Emilio e Niso, lasciando di dar la caccia agli sparpagliati nemici, si diressero tosto verso coloro, seguiti da una diecina di compagni, e non appena le due schiere, avvicinandosi velocissimamente ad angolo retto, furono in grado di potersi ravvisare, Emilio, nei due animosi che conducevan quei pochi all’assalto, riconobbe altri due dei sette, e volgendosi a Niso, sclamò con sorpresa:
— Guarda Gustavo e Teodoro! Viva i sette; morte ai Tedeschi!
Niso ed Emilio precipitarono la corsa e raggiunsero i due amici sulla soglia del castello, mentre Gustavo che era entrato il primo di tutti, sorprendeva la sentinella e le inchiodava nella gola l’allarme con una pugnalata.
Allora fu una scena da non dirsi. Que’ trenta eroi si avventarono ciascuno contro un Austriaco senza dar un grido, muti e terribili come ombre furenti, e sterminarono la schiera che stava di guardia sotto l’androne. Coi conquistati fucili si slanciarono a baionetta in canna nel primo cortile... e si udì per qualche tempo un orribile scrosciar colpi, e grida di cadenti, e lamenti di feriti, e lunghi allarmi risuonanti dovunque nell’immenso fabbricato.
Ma rinvenuti dallo sbalordimento, i soldati correvano alle armi, e cominciavano ad attorniar da ogni parte quei pochi rivoltosi...
La battaglia disuguale, e ormai disperata, durò ancora qualche poco; poi le imposte della porta del forte si chiusero;... il rumore andò cessando e dieci minuti dopo vi regnava un silenzio di morte.
Da quel punto non si seppe più nulla di quegli sventurati. Ciò che seguì nella scellerata corte è ancora un mistero di sangue; ma se la storia non fosse pronta ad attestarlo, nessuno crederebbe che venti o trenta giovani quasi inermi abbiano tentato quel colpo.
Così morirono quattro dei sette: Emilio, Niso, Gustavo e Teodoro. La compagnia brusca si sciolse, giacchè gli altri tre, quantunque non avessero preso parte al moto, dovettero mettersi in salvo esulando.
In tal modo quelli stessi che prima del pericolo avevano avversato a tutto potere l’insano progetto; quelli stessi che a mente fredda avevano rigettato energicamente ogni complicità in una rivolta a pugnali, senza probabilità di riuscita: ...al primo grido di libertà, al primo squillo d’allarme erano discesi nella strada, e s’erano gettati nella mischia colla disperazione del suicida.
Diverse cause avevano prodotto in ciascuno di quei quattro sventurati lo stesso effetto. Insofferenza del giogo — smania di lotta e di sangue austriaco — miseria — speranze perdute — disperazione della vita.
Nel momento supremo, ciascuno, credendo forse di essere solo, s’era determinato a far ciò da cui poco prima aveva cercato di dissuadere gli altri; tutti e quattro, senza volerlo, senza saperlo, si erano ingannati a vicenda.
Erano vissuti da scapigliati; erano morti da eroi. Da certi uomini gravi furono chiamati assassini.
Due giorni dopo sette forche stavano piantate dinanzi alla porta del castello.
Da una di esse spenzolava Lisandro, fatto prigioniero mentre stava ergendo la barricata; e quantunque non avesse ucciso nessuno, quantunque non avesse sparso neppur una stilla di sangue — strana cosa! — anch’egli fu chiamato assassino.
Assolutamente a questo mondo non si adora che il successo!