Pagina:Petruccelli - La rivoluzione di Napoli nel 1848, Genova, Moretti, 1850.djvu/156


— 150 —

dalla sua stampa, li fece provocare dai suoi sgherri. Tentò pure la corruzione di alcuni: si mascherò con altri e parlò di conciliazione. Eran commedie, perchè la sentenza della Camera era stata pronunziata fin dal suo nascere, dal momento che l’attitudine dignitosa degli elettori fu manifesta. Un’infinità di biglietti infatti, sotto il nome dei candidati, portavano scritto: abbasso il ministero! In molti comizii un grido unanime aveva aperta la votazione, il grido di: abbasso gli assassini del 15 maggio! Dappertutto non si pagavano più imposte, non si obbediva ai pubblici funzionarii. Dappertutto la concordia fra le differenti classi era intera. In Napoli, nella città del dolore, le cose andavano anche più in là. I teatri, le strade, i caffè erano deserti: i cittadini vestiti quasi tutti a bruno. Il borghese ed il militare cercavano evitarsi, o si guardavano in cagnesco. Le sentinelle, sopra tutto degli svizzeri, eran di notte trucidate da mani invisibili. Non si fumava più. Per punire la ribalda plebaglia, che aveva dato braccio al sacco, tutti i lavori eransi interrotti. Si vedevano signori in guanti gialli portare i loro fardelli e gentili giovani tirare carretti con suppellettili od altro, e rifiutare alcuni soldi a coloro i quali non avevano altro mezzo per sussistere. L’elemosina si negava: le chiese erano vuote: la città tutta spopolata. Dopo l'Angelus non s’incontravano per le strade che pattuglie e sgualdrine. La miseria, lo squallore, la disperazione si leggeva financo sulla faccia della plebe: l’abbattimento su quella dei borghesi e lo sdegno. Si credette che lo stato di assedio fosse la cagione di quel tempestoso orizzonte, e si tolse. Ma la situazione non cangiò in nulla. La plebe ravveduta, pentita, cercava