<dc:title> La rivoluzione di Napoli nel 1848 </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Ferdinando Petruccelli della Gattina</dc:creator><dc:date>1850</dc:date><dc:subject></dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation>Indice:Petruccelli - La rivoluzione di Napoli nel 1848, Genova, Moretti, 1850.djvu</dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=La_rivoluzione_di_Napoli_nel_1848/39._Apertura_del_parlamento&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20240422085623</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=La_rivoluzione_di_Napoli_nel_1848/39._Apertura_del_parlamento&oldid=-20240422085623
La rivoluzione di Napoli nel 1848 - 39. Apertura del parlamento Ferdinando Petruccelli della GattinaPetruccelli - La rivoluzione di Napoli nel 1848, Genova, Moretti, 1850.djvu
[p. 151modifica]39. Il discorso della corona, se non cumulò le nuvole, non le spazzò. Fu una diceria insignificante e vuota, che si stemperò nei soliti luoghi comuni d’industria, di agricoltura e di commercio. Neppure una parola sulle questioni del momento. La Camera dei Pari, ospedale di invalidi politici senza sintassi, si accolse alcune fiate per udir recitare due o tre discorsi sul letto di un fiume, sopra un porto franco, sulle patate inferme e sull’epizoozia, e per plaudire un accozzo di frasi slombate del Bozzelli, che terminava sempre i panegirici dell’augusto ed amato monarca o col bisogno di piacere o col desiderio di starsi zitto. L’invereconda connivenza della paria ai fatti del governo finiva di distoglierle lo spirito pubblico, col quale non aveva mai troppo bene simpatizzato. Era nel paese mal’affetta, divenne nemica. La Camera dei deputati al contrario, appena potette essere in numero, cominciò a deliberare. I banchi della destra erano letteralmente vuoti. Il ministero avrebbe voluto che alcuni deputati non fossero stati riconosciuti, come imputati di reato politico: la Camera proclamò tutti ad unanimità. [p. 152modifica]Il ministero avrebbe desiderato che si fosse sanzionata una legge sulla guardia nazionale, con la quale questo corpo era elevato a coadiutore del birro e del gendarme; era spoglio di ogni carattere politico e cittadino. Un magnifico discorso dell’Imbriani fulminò la legge: Mancini ne rivelò l’immoralità ed il senso occulto che la dettava. Il ministero avrebbe bramato in certo modo transigere: Avossa lo stigmatizzò del ferro rovente della sua eloquenza, e lo rigettò tra le lordure le più perigliose della nazione. In effetti il proiettile più micidiale che il cannone del 15 maggio aveva scagliato sul popolo era stato quel ministero di rinnegati e di ladri. Ladri sì, ladri vigliacchi e svergognati. Quel Bozzelli che il 28 gennaio viveva delle elemosine dei piccoli processi che gli delegava Marino Serra, a cui fu di poi tanto ingrato, quel Bozzelli, nell’agosto 1849, quando usciva dal ministero, per l’appaltatore Santocarlucci faceva costruirsi a Coroglio una casa di campagna ed acquistava una tenuta, per la quale spendeva meglio di quarantasettemila ducati. E quel Ruggiero, che prima di esser ministro viveva modestamente delle piccole furfanterie avvocatesche, di cui trafficava senza mistero, confessandosi spesso al gesuita padre Sorrentino, che amministrando la finanza aveva fatto man bassa su tutto, e che sulla formazione del nuovo debito di 14 milioni aveva mercanteggiato la vendita della rendita coll’ebreo Rotschild e ne aveva ricavate grosse somme; nel mattino stesso che era cacciato dal ministero, nella dogana pervenivagli da Londra un elegante carrozzino, per cui aveva pagati ducati duemila cinquantaquattro. E quegli uomini domandavano transigersi con i rappresentanti del popolo! domandavangli [p. 153modifica]la complicità o la legalizzazione degl’impuri loro mercati! Ogni accordo fu respinto. Non le lusinghe di nuove concessioni liberali, non le minacce brutali dell’armata che li guardava in cagnesco pronta a sgozzarli, non le provocazioni per le strade e nei caffè, non la certezza della dissoluzione potette su loro: deliberarono sotto le micce accese dei cannoni, con la spada alla gola dei pretoriani di re Ferdinando. Ed il Poerio ardì fino chiamare innanzi al tribunale della Camera il general Nunziante, caro al re ed alla truppa, onde rendere ragione, per mezzo del ministro della guerra, degli atti atroci che commetteva in Calabria e delle guardie nazionali che discioglieva e dei corpi franchi che organizzava. Dragonetti domandò conto delle sevizie che praticavansi ai siciliani, i quali, dopo il tristo esito della rivoluzione calabrese, si erano imbarcati per Corfù, ed erano stati fatti prigionieri dai vapori da guerra napolitani, che per ingannarli avevano alzata bandiera inglese sulle acque greche. Pisanelli e Poerio domandarono che lo scellerato prete Peluso, il quale aveva assassinato il bravo colonnello Carducci e si sollazzava nella Reggia, dove toccava il prezzo del sangue e pattuiva una prelatura, domandavano che la processura fosse istruita e l’assassino punito. Spaventa chiedeva conto della servitù a cui erasi ridotta la stampa. Conforti giustificava la politica tuttodì calunniata del suo ministero, che il re appellava ministero da tagliagole. Massari trascinava innanzi al tribunale di Europa il ministro degli affari stranieri, e l’obbligava a render conto della politica del gabinetto: e questi ebbe l’impudenza di asserire, che il gabinetto era italiano e seguiva una politica [p. 154modifica]italiana. Niun mistero fu rispettato: niun diritto lasciato impunemente violare. La protesta era giornaliera, era permanente. La parola appassionata del Conforti, il dire elevato ed ironico di Avossa, lo stile brillante del Pisanelli, la logica inflessibile dell’Imbriani, la perorazione proteiforme ed incalzante del Poerio, il discorso chiaro e luminoso del Pica, il sarcasmo breve e corrosivo di Spaventa, sconcertarono il governo, l’allarmarono. E quasi questa battaglia a file serrate fosse stata poco, un ultimo atleta giunse, il dotto professore Savarese, che con un discorso vivo e stringente dichiarò Italia essere una nazione, e che, in qualvogliasi parte della penisola i suoi figli nascessero, dovessero dappertutto aver diritto eguale di cittadinanza. Questo era il colpo di grazia che si portava alle ultime idee del medio evo, sì tormentato dal municipalismo, era un cartello gittato all’austriaco, un anatema alla politica croata del governo, un corpo che si guidava alla riscossa, dopo la disfatta di Carlo Alberto; era la teoria dell’unità italiana, idea viva e suprema della rivoluzione, come le scuole primarie all’insegnamento. Messo per tal modo al bando della libertà e dell’Italia, sviscerato in tutti i suoi pensieri, scompigliato in tutti i suoi piani, il ministero si sentiva mancare il terreno sotto i piedi. E benchè ogni dì una nuova foglia fosse strappata dall’albero della libertà, esso si riconosceva incompatibile al governo; il soffio dell’opinione pubblica lo respingeva, lo rovesciava. E forse sarebbe caduto se la nuova dei disastri d’Italia non fosse sopraggiunta.