La rivoluzione di Napoli nel 1848/32. Dispersione della Camera
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32. Il macello dei deputati era stato fermo anch’esso; ma la risoluzione della gendarmeria, la paura che le guardie nazionali della città circostanti non giungessero improvvise, che il regno non si sollevasse come un sol uomo e non sopravvenisse nel meglio una protesta dei diplomatici stranieri già in parte raccolti alla corte, fece assopire per il momento la sete del sangue e l’ordine fu dato di risparmiar loro la vita, ma disperderli, se occorresse, anche alla baionetta. — I rappresentanti non derogarono neppure un istante alla loro dignità. Riconoscendosi impotenti a nulla più fare, attenuati di numero, sicuri di essere fra poche ore immolati tutti all’idolo della Reggia, nessuno si mosse, nessuno pensò profittare dello scampo ancora possibile e della tutela offerta dalla gendarmeria e dalla guardia nazionale. Al rumore della moschetteria che ingagliardiva sotto le finestre dell’assemblea, alla luce spaventevole dell’incendio del palazzo Gravina, quasi di rincontro, mentre le palle percotevano già i cristalli dei balconi, il deputato Mancini scrisse energica protesta in faccia alle nazioni di Europa contro l’attentato di re Ferdinando. Si promise riunirsi in altra città del regno, se si scampasse la libertà e la vita; si fece giuramento e si segnò. Sessantaquattro rappresentanti restavano ancora nella Camera, sessantaquattro firmarono l’atto. Il Comitato di pubblica salute, troppo tardi creato, impossente ad esercitare alcuna funzione, aveva abdicato e si era confuso al resto dell’assemblea. Tutti raccolti perciò ed assisi nel fondo della sala, tutti silenziosi aspettavano la lugubre soluzione del dramma e la sentivano ad ogni minuto approssimare. Le tenebre della notte che avanzava, la luce sinistra dell’incendio che tingeva di colore sanguigno parte delle mura, davano agli affreschi della sala una espressione feroce, e ne accrescevano la vastità. I deputati, che come ombre immobili ed inanimate disegnavansi nel buio e lo rianimavano di una vita lenta ed assopita, i gridi feroci dei vittoriosi, i lamenti disperati di femmine che imploravano mercede pei figli e per l’onore, il fragore incomposto, spaventevole di una plebe che bravava le fiamme per saziare l’avidità, che cantava su i ruscelli di sangue, quello stato indefinibile infine di una città fulminata dall’ira dell’uomo, più raccapriccevole dell’ira della natura corrucciata, quell’atmosfera insomma di morte e di orgia, accrescevano l’orrore della situazione. — I soldati giunsero infine innanzi le porte dell’assemblea. Erano gli svizzeri ed i soldati della marina. Tinti di sangue, brutti di sudore, di fumo, di vino, convulsi di ferocia e di entusiasmo, essi avrebbero voluto consumare intero il delitto e suggellarlo sull’assemblea. Gli uffiziali, che altro ordine avevano ricevuto dalla corte, nol permisero. Perciò un capitano svizzero, con la spada sfoderata, si presentò nella Camera, e senza salutarla, senza scovrirsi il capo, brutalmente disse: "in nome del re, che vi fa salva la vita, ritiratevi". Nessuno rispose: niun atto di commozione tradì la passione interiore da cui ciascuno era travagliato. Si uscì dalla sala, ed a gruppi a gruppi, accompagnati dalla gendarmeria, per isfuggire alle violenze dei soldati e della plebaglia, perseguitati dai gridi di viva il re, abbasso la costituzione, guadagnò ciascuno il domicilio che credette più sicuro. — La notte intanto non pose termine alla strage. Al lume dei portoni, delle case e delle barricate che ardevano, gavazzavano plebe e soldati. Quivi trascinavansi le vittime che andavansi scovando per le case, e parte sgozzavansi, parte inviavansi alle prigioni, spogliavansi e svillaneggiavansi tutti. Quivi si portavano le prede che facevansi ovunque; e quelle prede dividevansi se ricche, o donavansi ai più poveri plebei se di poco pregio. Quivi si cioncava, si mangiava. Un abito di guardia nazionale, un moschetto, un foglio del Mondo vecchio e Mondo nuovo, o i peli sul volto, bastavano per far condannare un uomo alla morte, e immediatamente eseguivasi. Il generale della guardia nazionale, Gabriele Pepe, svillaneggiato, percosso, era tratto nella piazza della Carità, e forse l’avrebbero fucilato se non veniva in soccorso un ufficiale che lo strappò dalle mani de’ manigoldi. Altri furono finiti così; altri trovarono la morte precipitando nei pozzi, o cadendo dai tetti mentre cercavano salvarsi. Ma i baccanali più inverecondi rappresentavansi dinanzi alla Reggia. Ferdinando Borbone e la sua eccelsa consorte, venuti giù nella via, passarono la notte fra plebe e soldati, fumando e berlingando con loro al lume delle barricate che bruciavano. Stringevano a tutti la mano, profondevano nastri, croci, presenti. La superba figlia dell’arciduca Carlo, non sapeva inventare più sorrisi e lusinghevoli parole. Avversa a qualunque libertà, tanto ella aveva intronato l’orecchio al marito dell’eterno ritornello, lei avere sposato un re assoluto, non il fantoccio senza logica e senza significazione di un principe costituzionale, voler dividersi da lui, tornar subito in patria: l’aveva tanto ripetuto che infine vedevasi soddisfatta. Maria Antonietta di Francia, aveva agito sotto il dominio dei medesimi principii: ma come finì? e come finì quella Maria Carolina, regina di Napoli anch’essa? La storia è dunque muta per voi? e voi non imparerete mai nulla e nulla oblierete? Proseguite: l’avvenire che tutto giustifica e tutto legittima non è lontano.
Quella gioia plebea dei reali era però contaminata dal pensiero della propria situazione. Essi avevano dovuto scendere alla prostituzione della dignità regia per conservare ancora qualche giorno agonizzante. Dovevano trascinare un avvenire macchiato, scaduto, lordato di fango, senza prestigio alcuno, senza forza vera, senza pace, senza lieto sorriso nel fondo dell’orizzonte, senza perdono, ignari e spaventati del come quell’atto di delirio sarebbe stato accolto nel resto della nazione, e dall’Europa libera. Quella gioia officiale era un supplizio, una corona di sopra un cadavere. Temperata la prima febbre di gaudio, la vittoria li spaventava quasi. Avrebbero voluto potersi arrestare; ma una fatalità inesorabile li incalzava e diceva loro: avanti, avanti: consumate intero il calice che vi avete apprestato; vedetene il fondo. Il fermarsi era per loro la ruina: il continuare era qualche cosa di peggio ancora, era il dubbio. Ma di continuare faceva pure mestieri.