La rivoluzione di Napoli nel 1848/31. Operazioni dell'Assemblea

31. Operazioni dell'Assemblea

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30. L'attacco 32. Dispersione della Camera

[p. 110 modifica]31. I rappresentanti, al rumore continuato della moschetteria e del cannone, non si riscossero, e [p. 111 modifica]determinarono aspettare i facinorosi. Essi si erano per qualche tempo lusingati di aver rimosse le difficoltà e composte le discordie. Avevan creduto che per un re, alla vigilia della ruina, vi potesse essere ancora qualche cosa di sacro e di legale. La voce del cannone li riscosse brutalmente. Allora gli estremi vincoli che univano la famiglia de’ Borboni al paese si ruppero: le illusioni dei creduli al sistema costituzionale svanirono. Il re fu messo al bando della nazione, e considerato come un nemico straniero che veniva ad attaccare la sovranità legittima. Popolo e re si trovarono di fronte in due campi per decidere di una sfida mortale, ancora non soddisfatta, ed in cui uno dei nemici non deve rilevarsi mai più. L’assemblea ritrovò la coscienza di sè, ed assunse tutti gli attribuiti del principato. Fu troppo tardi veramente per avere dei risultati positivi ed esteriori: non importa. Il principio fu salvo: la sovranità del popolo nè abdicò, nè si obliò: ed in un corpo fulminato da paralisi mantenere la vita e pronunciarla al di fuori, è tutto quanto può desiderarsi. D’altronde in politica i precedenti han sovente la forza di diritto, e l’assemblea non si degradò a consecrarne dei funesti. Essa dichiarò la famiglia Borbone decaduta dall’esercizio del potere esecutivo, non con una legge espressa, ma col fatto, creando nel suo seno un Comitato di pubblica salute, a cui tutte le attribuzioni ed i poteri furono conferiti. I cinque membri che lo composero, e di cui ebbi l’onore far parte, si segregarono dall’assemblea per prendere degli energici provvedimenti. A tal uopo il Comitato propose: dal presidente della camera si partecipasse al ministero la creazione del nuovo potere esecutivo: s’inviasse una deputa[p. 112 modifica]zione al comandante della piazza Labrano per domandargli ragione delle ostilità impegnate contro i cittadini: si convocasse la guardia nazionale nei quartieri non ancora invasi dalla soldatesca, e si conducesse a ristorare le sorti della battaglia; dappoichè erasi constatato che solo trecento di queste guardie, e qualche centinaio di giovani borghesi, tenevan testa a meglio di diecimila soldati, due parchi d’artiglieria, ed un castello che indefessamente vomitava la mitraglia e diradava gli ordini dei sollevati: si provvedesse ai fondi per comperare munizioni da guerra, e contenere la plebe il più che era possibile: si spedissero dei messi alle guardie nazionali di Salerno, Caserta, Castellamare, Pozzuoli ecc. perchè marciassero sopra Napoli: si mandasse una deputazione all’ammiraglio francese Baudin perchè o somministrasse munizioni da guerra, pagandole, o cercasse con la sua mediazione di far cessare l’eccidio. — In effetti gli ordini per chiamare le guardie nazionali delle città prossime a Napoli si dettero; ma intercettati in gran parte dal governo, i messi furono carcerati, le lettere presentate alla Reggia. I danari erano anche pronti, essendosi i deputati generosamente tassati: ma per andarli a raccogliere nelle differenti case, facendo mestieri percorrere la città, quasi interamente occupata dalle soldatesche, vi si rinunziò, tanto più che sembrava oramai troppo tardi. I deputati Ricciardi e Giuliani recaronsi all’ammiraglio e dopo avere attraversata una strada spazzata incessantemente dal cannone di Castelnuovo, giunsero a raccontargli la storia della discordia e la posizione della città. Baudin sapeva già tutto, essendo stato da tempo innanzi mercanteggiato dallo spione Tommaso Danjou e da De [p. 113 modifica]Montessuy, aggiunto all’ambasciata di Francia: un aiutante di campo del re era andato a raffermare il mercato, ed a denunziare il dì della catastrofe. Egli quindi mirando col cannocchiale assistè freddamente all’orribile spettacolo, sclamando: c’est ainsi que les choses se passent dans toutes les révolutions! Robespierre était un monstre qui sera voué a l’exécration de la posterité, quoique des hommes d’aujourd’hui (Lamartine) aient osé tenter de le réhabiliter. E quando intese le dimande che gli venivano dall’assemblea, per tutta risposta asserì non poter vendere delle munizioni poichè ciò valeva una dichiarazione di guerra contro del re: non potersi rendere mediatore, anche a nome dell’umanità, non avendo ricevute istruzioni dal suo governo: solo poter offerire ospitalità sulle navi a coloro che volessero cercarvi rifugio. Queste dichiarazioni non han bisogno di comento. Baudin era legittimista: aveva subìta la repubblica, anzi l’aveva trovata un delitto: non conosceva diritti di popolo: ogni rivoluzione era una ribellione. Ben altrimenti comportossi il ministro di Francia, e se nulla potette ottenere non fu certo colpa di lui. Il signor Levraud era vero repubblicano, ed aveva addimostrato mai sempre colle più vive simpatie caldeggiare la causa di Italia. Nel cominciar dell’attacco egli si recò immediatamente dall’ammiraglio, e dimandò che senza por tempo in mezzo un corpo di soldati francesi fosse spedito a terra per difendere le sostanze e la vita dei proprii concittadini; e che entrambi personalmente si recassero a corte per significare al re di far cessare l’eccidio. Baudin si negò allo sbarco dell’equipaggio, sapendo bene che questa manifestazione in favore bastava perchè [p. 114 modifica]la causa del popolo fosse salva e il re arrestato nel meglio della sua festa scellerata. Tornato vano questo tentativo, Levraud dimandò che l’ammiraglio segnasse una nota da lui redatta al governo napolitano. Baudin la trovò troppo fiera, troppo ardita, per essere presentata ad un re. Levraud la modificò, ma anche invano: si abbassò perfino a segnare la pallida e modesta preghiera formulata dall’ammiraglio; ma questa stessa, che avrebbe forse incitato gli altri diplomatici stranieri ad operare altrettanto, e riscossa la iena reale, questa stessa neppure fu inviata o inviata quando tutto era finito. Le nobili intenzioni del ministro della repubblica non furono secondate, e non pertanto oggi le sconta nell’esilio. All’incontro Baudin fu largamente rimunerato delle sue perfide arti. Due giorni dopo fu visto passeggiare in carrozza col re; il 5 giugno gli dava una festa di ballo a bordo del Freidland e più tardi otteneva per suo figlio un posto di primo segretario d’ambasciata a Napoli!

I deputati spediti in commissione al comandante della piazza Labrano, ebbero per risposta, che gli ordini di attaccare non essendo partiti da lui, ma direttamente dal re, egli nulla sapeva, nulla poteva, si volgessero perciò alla corte. Vi corsero infatti, e quivi trovarono che gli egregi cittadini Bozzelli e Ruggiero assumevano già le redini dello Stato. Avossa diresse loro durissime parole. E non avendo potuto penetrare fino al re per domandargli conto dell’improbo fatto, parecchie volte correndo pericolo di vita, ritornarono alla Camera per raccontare i bagordi della Reggia. Al ministero infine fu annunziata la creazione del Comitato di pubblica salute, ed il ministero ne partecipò il re scongiurandolo [p. 115 modifica]ancora una volta di far desistere dalla zuffa. Ma questo autocrate vigliacco ed ipocrita protestò non aver egli provocata la lotta, ed essere oramai impossente ad arrestare soldati che difendevansi. Miserabile! non posseder neppure il coraggio della propria volontà! negare perfino il proprio fatto! discendere a giustificarsi innanzi ad un popolo che si mitragliava! dissimulare per fino in faccia ad un nemico! Un altro re avrebbe detto: l’avete meritato, lo voglio. Un uomo educato da un uomo avrebbe risposto: uso dei diritti della vittoria: andate. Un soldato avrebbe sclamato: poichè vinco, poichè il nemico cessa di difendersi, perdono, Ferdinando Borbone risponde: io non so nulla, vi domando scusa umilmente; e sotto voce contemporaneamente ordina al Torchiarola: quartiere a nessuno: i prigionieri si fucilino in massa: città e cittadini a discrezione del soldato e della plebe. Ed in effetti ad alcuno non si perdonò. Gran numero di prigionieri furon trascinati nelle corti dei castelli e fucilati, uomini, donne, fanciulli, tutti insieme, senza giudizio, senza conforto di religione. Chi oserebbe dunque contestare a Ferdinando Borbone l’attributo di uno dei più sordidi scellerati del secolo?