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sentanti non derogarono neppure un istante alla loro dignità. Riconoscendosi impotenti a nulla più fare, attenuati di numero, sicuri di essere fra poche ore immolati tutti all’idolo della Reggia, nessuno si mosse, nessuno pensò profittare dello scampo ancora possibile e della tutela offerta dalla gendarmeria e dalla guardia nazionale. Al rumore della moschetteria che ingagliardiva sotto le finestre dell’assemblea, alla luce spaventevole dell’incendio del palazzo Gravina, quasi di rincontro, mentre le palle percotevano già i cristalli dei balconi, il deputato Mancini scrisse energica protesta in faccia alle nazioni di Europa contro l’attentato di re Ferdinando. Si promise riunirsi in altra città del regno, se si scampasse la libertà e la vita; si fece giuramento e si segnò. Sessantaquattro rappresentanti restavano ancora nella Camera, sessantaquattro firmarono l’atto. Il Comitato di pubblica salute, troppo tardi creato, impossente ad esercitare alcuna funzione, aveva abdicato e si era confuso al resto dell’assemblea. Tutti raccolti perciò ed assisi nel fondo della sala, tutti silenziosi aspettavano la lugubre soluzione del dramma e la sentivano ad ogni minuto approssimare. Le tenebre della notte che avanzava, la luce sinistra dell’incendio che tingeva di colore sanguigno parte delle mura, davano agli affreschi della sala una espressione feroce, e ne accrescevano la vastità. I deputati, che come ombre immobili ed inanimate disegnavansi nel buio e lo rianimavano di una vita lenta ed assopita, i gridi feroci dei vittoriosi, i lamenti disperati di femmine che imploravano mercede pei figli e per l’onore, il fragore incomposto, spaventevole di una plebe che bravava le fiamme per saziare l’avidità, che cantava su i ruscelli