<dc:title> La rivoluzione di Napoli nel 1848 </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Ferdinando Petruccelli della Gattina</dc:creator><dc:date>1850</dc:date><dc:subject></dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation>Indice:Petruccelli - La rivoluzione di Napoli nel 1848, Genova, Moretti, 1850.djvu</dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=La_rivoluzione_di_Napoli_nel_1848/30._L%27attacco&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20240419164830</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=La_rivoluzione_di_Napoli_nel_1848/30._L%27attacco&oldid=-20240419164830
La rivoluzione di Napoli nel 1848 - 30. L'attacco Ferdinando Petruccelli della GattinaPetruccelli - La rivoluzione di Napoli nel 1848, Genova, Moretti, 1850.djvu
[p. 104modifica]30. A nove ore del dì 15 maggio i rappresentanti cominciarono a riunirsi nel palazzo della città. Il loro aspetto era conturbato, presagivano qualche cosa di funesto. Nel dì precedente non vi era stata distinzione di destra e di sinistra. Una frase più o meno ardita, un proposito più o meno fiero, un consiglio più o meno temperato, aveva unicamente dato una gradazione di tinte al consesso. Quella mattina i più moderati si unirono da un lato, giunsero più tardi e più abbattuti nel viso, e parecchi a dieci ore, l’ora assegnata alla cerimonia, [p. 105modifica]non erano ancora arrivati. Delle voci sinistre correvano intorno. Si parlava di sollevazione di plebe nei quartieri da essa abitati: si parlava della determinazione di attacco e di difesa delle barricate e degli sforzi inutili ripetuti dalla guardia nazionale per isbarazzarne le strade. Si diceva che grossi corpi di truppa si schieravano sulla piazza della Reggia; che gli svizzeri stavano sotto le armi nelle corti dei quartieri; che le strade ferrate tenevansi dalla soldatesca. Una commissione fu mandata al ministero per sapere se si era pronti di andare alla chiesa; un’altra alla corte. Questa non tornò più. Il ministero era alla Reggia e si dibatteva col re, e fiere parole e severi rimproveri si rimbeccavano. Qualcuno giunse perfino a dirgli: ho onta di avervi servito. Ma il dado era tratto: l’ora di alzare la tela era giunta. — Dieci ore passate, i deputati Ricciardi e Stefano Romeo proposero che la Camera si dichiarasse costituente e costituita, e principiasse a deliberare. Carducci domandò per la seconda volta di mandarsi a chiamare la guardia nazionale della provincia di Salerno, onde affidarle la custodia dell’assemblea. Un altro deputato parlò di governo provvisorio, e Zuppetta fece proposizioni anche più energiche. Ma l’assemblea distratta, tumultuosa, in piedi, senza scopo determinato, da mille dubbi agitata, riscaldata da passioni varie, nulla intese, nulla accolse, nulla volle fare, nulla votò. Era un convocio sformato e incomprensibile, un agitarsi vertiginoso, tempesta subita ci coglieva senza timonieri e senza ordigni. In mezzo a questo chiasso un uomo s’introduce nella Camera, il capitano delle guardie nazionali La Cecilia, ed annunzia che nella piazza della Reggia la battaglia tra soldati e popolo erasi impegnata. [p. 106modifica]Un istante appresso Filippo Capone viene a gittare sulla banca della presidenza una palla di cannone calda ancora; e dietro a lui il capitano Barone con una commissione di guardie nazionali, che domanda istruzioni sul modo da condursi, e promette difendere l’assemblea fino alla morte. A quella trista trilogia l’aspetto della Camera cangia come per incanto. Non più tumulto, non più grida, non più disordine; la soluzione che aveva messi i deputati in convulsione era trovata, l’incognita che li aveva spinti al deliramento era manifesta. Alla commissione delle guardie nazionali il presidente di età, Cagnazzi, rispose: l’assemblea esser sicura del loro patriottismo e valore: per tutta sua difesa rivestirsi della propria dignità: raccomandare di distornare la guerra civile, non potendo, non volendo autorizzarla, o renderla per quanto potevasi meno atroce, se di stornarla fosse impossibile ormai. Al capitano La Cecilia s’impose tenersi nel locale della rappresentanza con un manipolo di uomini, pronti agli ordini del presidente. Ed al capitano della gendarmeria Pignataro, che veniva del pari con i suoi a costituirsi difensore dei deputati, si resero grazie, e per fargli piacere, si accettò l’offerta, dichiarando quell’atto riabilitare un corpo, cui molte tristizie si erano addebitate. Ed è mestieri confessare, che se i rappresentanti non furono vittime delle atrocità concepite nella corte, sì per parte dei soldati come per parte della plebe eccitata da preti e da frati, debbesi all’attitudine risoluta spiegata dalla gendarmeria di volerli ad ogni costo salvare. — Verso le dieci del mattino, il colonnello di uno dei reggimenti svizzeri, a cavallo, la spada nel fodero, accompagnato da soli otto o dieci uomini, si presenta alla barricata [p. 107modifica]del Largo dello Spirito Santo e domanda passare. Il passo gli si rifiuta. Allora egli dichiara: che recavasi a corte per rendere note le deliberazioni dei suoi compatrioti, i quali avevan deciso che, uomini liberi, non si sarebbero battuti giammai contro un popolo, il quale anelava alla libertà, e segnatamente contro i napolitani da cui tanti pegni di simpatia avevano ricevuti: che a nome di tutti andava a scongiurare il re di cedere alle domande dell’assemblea e dei cittadini, e prometteva rischiarare ogni equivoco, temperare l’acerbità di ambo le parti. Misti ai delegati della corte, sulle barricate trovavansi pure degli uomini che credendo veramente la libertà in pericolo, e non sospettando di provocatori, vi si tenevano per compiere un dovere. Il dire del colonnello li persuase. E senza rammentarsi che equivoco non vi era più, e che le barricate non avevano più scopo, da un capo all’altro della strada Toledo ne fu demolito un cantone per lasciarlo arrivare fino alla Reggia, avendo tenuto da per tutto la favella medesima. Non si considerò neppure che avrebbe potuto percorrere altro cammino! Giunto dal re riferì: le barricate essere state costruite giusta i desiderii ed i comandi dati: guardarle pochi; non vi esser dubbio sull’esito dell’attacco; potervisi metter mano. Allora fu dato ordine ai militari di marciare. — Preceduti dal colonnello medesimo, il quale assumeva di un subito altro aspetto, si presentarono alla prima barricata, di rincontro alla Reggia, ed imposero ai difensori di arrendersi a mercè. Nel tempo stesso un colpo di pistola parte da uno dei palagi presso il cantone di San Ferdinando. Quello era il segnale. Una batteria si smaschera incontanente e comincia a tirare: al che succede un fuoco [p. 108modifica]di fila, ben nudrito dalle linee dei soldati. Le guardie nazionali e i cittadini che custodivano le barricate, e che non domandavano altro che intendersi, per fare unitamente sparire quei simulacri di guerra civile, attaccati così bruscamente, sentirono che la loro situazione cangiava, e cangiava la loro parte. Cedere, oramai sarebbe stata viltà, sarebbe stato darsi per vinti senza combattere, subire la sorte dei vinti senza aver prima perduto. All’attacco opposero la resistenza, al fuoco il fuoco. E la prima vittima che insanguinava il terreno era lo spergiuro colonnello, il quale, colpito sul petto e sulla fronte, soddisfaceva alla giustizia di Dio ed a quella degli uomini. La mischia s’impegnò fieramente. I soldati cadevano per file intere, gli uffiziali sopratutto, che da dovunque erano di preferenza presi di mira. La zuffa durò due ore. Ma i difensori non avevano più munizioni, i più ben provveduti avendo cominciato con otto cartucce; i difensori erano pochi. Coloro che avevano simulata maggior fierezza, i costruttori delle barricate, al primo colpo scomparvero come per incanto. La loro parte era compiuta. Allora si scoprì il vero, ma era troppo tardi: bisognava difendersi e morire. E i liberali si difesero e morirono con un coraggio, di cui pochi esempi s’incontrano nelle storie. Ma che potevano fare senza cannoni e senza munizioni? La fatale bandiera rossa s’innalzò sulla Reggia. I comandanti dei castelli aprirono i plichi e vi trovarono gli ordini di bombardare la città. Castelnuovo obbedì: Castel Sant’Eramo tirò tre colpi in aria ed ebbe rimorso di proseguire. Il general Roberti, che vi comandava, fu di poi destituito. La città così fulminata, i cittadini così sorpresi da un attacco senza [p. 109modifica]ragione e senza misura, rimasero stupefatti ed atterriti. Non si erano preparati, non avevano neppur sospettato una perfidia tanto forsennata. Essi avevano impegnata una lotta legale, e legalmente per mezzo del Parlamento ne aspettavano la soluzione. Cacciarvi in mezzo il cannone era una viltà degna sola di Ferdinando Borbone. Non pertanto quella piccola coorte di cittadini che aveva assunto, diciam così, il mandato di rispondere all’infame provocazione, generosamente si condusse. Essi mostrarono di che tempra fossero i liberali, e qual sorte sarebbe toccata alla masnada di corte ed ai suoi scherani se la battaglia fosse stata denunziata a tempo, preveduta almeno, e combattuta ad armi eguali. Finchè i cittadini ebbero polvere e piombo, i soldati non osarono avvicinarsi e lavorarono di cannone. Quando le munizioni furono esaurite, quando il fuoco ebbe cessato dalla parte dei nostri, allora la guardia reale, gli svizzeri, e i reggimenti della marina svilupparono la loro bravura. Con le artiglierie sfondarono i portoni ed aprirono le barricate, cui un solo uomo non guardava più: si slanciarono come belve nelle case, dove non trovavano che donne e fanciulli. Ma che importava? I valorosi del Falstaff della reazione non domandavano altro campo, non ambivano altri allori. I fanciulli furono sgozzati senza pietà: gli infermi precipitati dalle finestre: le donne stuprate, mutilate, assoggettate ad ogni specie d’insulto e di martirio, poi uccise: molte spinte a suicidarsi per iscampare al diabolico delirio di quegli assassini. Quanto mai nelle case vi potevano rubare, fu tolto: al resto messo fuoco. Attorniati da cadaveri, da supplicanti, da vituperate, si abbandonarono ad orgie che niuno [p. 110modifica]ancora ha descritte, che sfidano l’immaginazione di Crebillon figlio e del marchese de Sade, che avrebbero fatto ribrezzo ai soldati del Contestabile di Borbone ed agli stessi croati, poeti sovrani in fatto di saturnali di vittorie. Ubbriachi, sazii di cibi e di voluttà, impotenti a rubare di vantaggio, distruggevano quanto loro si parava d’incontro, cose e persone; ed andavano oltre per cominciare in un’altra casa le scene medesime, inventarne delle più truci. Io rifuggo dal raccontare. La delicatezza, i rispetti dovuti ai misteri orribili di alcune sventurate famiglie m’impongono di non specificare i fatti, d’individuarli, di nominare le figlie stuprate sotto gli occhi delle madri, le spose violate al cospetto dei mariti agonizzanti, le somme rubate, le mutilazioni, gli sfregi. La religione del dolore mi arresta. Basti dire che gli svizzeri furono i più crudeli, e gli uffiziali più infami dei soldati in tutti i tre corpi. Così l’una dopo l’altra si presero, senza difficoltà alcuna, le altre barricate; così trattaronsi tutte le case che si offersero sul passo agli eroi di Velletri. E dove essi non bastavano, erano lì gli uomini della plebe più bruta che giungevano come un nugolo di bruchi per raccogliere le briciole loro cadute e tutto distruggere. - Al fuoco! al sacco! viva il re! a morte i liberali! abbasso la costituzione! tali erano i gridi a cui si esilaravano, tali erano gli scopi delle opere loro. Gli uomini rubavano e gittavano dai balconi gli oggetti: le donne raccoglievano e correvano a nasconderli nelle loro casipole, o li vendevano a dei furfanti rigattieri, che per nulla comperavano suppellettili di ricco valore.