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narono aspettare i facinorosi. Essi si erano per qualche tempo lusingati di aver rimosse le difficoltà e composte le discordie. Avevan creduto che per un re, alla vigilia della ruina, vi potesse essere ancora qualche cosa di sacro e di legale. La voce del cannone li riscosse brutalmente. Allora gli estremi vincoli che univano la famiglia de’ Borboni al paese si ruppero: le illusioni dei creduli al sistema costituzionale svanirono. Il re fu messo al bando della nazione, e considerato come un nemico straniero che veniva ad attaccare la sovranità legittima. Popolo e re si trovarono di fronte in due campi per decidere di una sfida mortale, ancora non soddisfatta, ed in cui uno dei nemici non deve rilevarsi mai più. L’assemblea ritrovò la coscienza di sè, ed assunse tutti gli attribuiti del principato. Fu troppo tardi veramente per avere dei risultati positivi ed esteriori: non importa. Il principio fu salvo: la sovranità del popolo nè abdicò, nè si obliò: ed in un corpo fulminato da paralisi mantenere la vita e pronunciarla al di fuori, è tutto quanto può desiderarsi. D’altronde in politica i precedenti han sovente la forza di diritto, e l’assemblea non si degradò a consecrarne dei funesti. Essa dichiarò la famiglia Borbone decaduta dall’esercizio del potere esecutivo, non con una legge espressa, ma col fatto, creando nel suo seno un Comitato di pubblica salute, a cui tutte le attribuzioni ed i poteri furono conferiti. I cinque membri che lo composero, e di cui ebbi l’onore far parte, si segregarono dall’assemblea per prendere degli energici provvedimenti. A tal uopo il Comitato propose: dal presidente della camera si partecipasse al ministero la creazione del nuovo potere esecutivo: s’inviasse una deputa-