La rivoluzione di Napoli nel 1848/25. Programma del 5 aprile - Opposizione
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25. Mentre provvedeva alla grande opera d’Italia, l’organizzazione interna non era trascurata dal ministero. Esso aveva cominciato da qui. — La Costituzione era nata rachitica, o per meglio dire non vitale. Era il patto sociale redatto da una sola delle parti senza il concorso dell’altra, anzi senza che all’altra si fosse neppure permesso di rettificarlo. La rivoluzione aveva ricostituita la sovranità del popolo lungamente assorbita nella personalità della monarchia. La sua legittimità ne era stata riconosciuta da quello stesso che, delegato una volta ad esercitare parte di tal potere, intero lo aveva usurpato. Questi rientrava nei limiti che il popolo gli aveva assegnati. E perchè questi limiti non fossero ancora una volta oltrepassati, il popolo sovrano li fissava con una legge. — Ebbene, questa legge non solamente non era fatta dal popolo per una costituente, ma, raffazzonata dal principe, negavasi al popolo perfino il diritto di rivederla e sanzionarla. In una parola, si legittimava l’anarchia. A questo vizio organico del patto fondamentale della nazione aggiungevasi: un censo esorbitante sì per gli elettori che per gli eleggibili: l’interdizione della parte intellettuale del paese: l’oblìo compiuto del giurì: l’indeterminazione di tutte le libertà da regolarsi con apposite leggi, e nel tempo stesso un veto assoluto al principe che poteva per questo solo mezzo tutte annullarle legalmente; e la formazione di una camera dei pari totalmente di nomina del re. Queste violenze alla natura normale della nazione raddoppiavano il malessere sociale. In un paese povero, assolutamente agricolo, senza industrie, senza commercio, incatenato nello sviluppo di tutte le sue attività, l’elevazione del censo interdiceva l’esercizio dei suoi diritti sovrani a nove decimi della popolazione. - Gli uomini addetti alle speculazioni intellettuali, in un paese in cui l’intelligenza è una sventura che trascina seco gli anatemi del clericato e le persecuzioni della polizia, tali uomini, i soli illuminati, i soli capaci di rappresentare le alte funzioni della sovranità nazionale, perchè poveri, da queste funzioni erano rimossi. E nel tempo stesso vedevasi lo strano spettacolo che quel Bozzelli, il quale non aveva neppure il censo per essere elettore, era ministro. In un paese infine in cui l’aristocrazia non ha radice, non ha esistenza, non ha interessi nè speciosi nè parziali, non ha in una parola che un povero titolo poveramente trascinato nelle officine delle segreterie, nei ranghi dell’esercito o nelle scuderie della corte: in tal paese una camera dei pari, oltre al non avere necessità di esistenza, oltre all’essere avversa a tutti gl’istinti e tradizioni nazionali, era innormale, anacronistica, non poteva rappresentare che interessi fittizii, ossia abusi, ossia usurpazioni monarchiche, non poteva essere saturata che da vescovi, arcivescovi, servidorame di corte e pubblici funzionarii. In una parola, la camera dei pari era un inutile fardello, un attentato alla sovranità nazionale, una mostruosità, un’appendice dell’usurpazione monarchica. Il popolo tutto l’abborriva. Il ministero quindi, col programma del 5 aprile, promise raddrizzare questi storpii, e vi pose mano. La legge elettorale fu profondamente cangiata: il diritto di suffragio esteso ad un maggior numero di cittadini, e sottratto all’influenza del campanile: la parte intellettuale riabilitata interamente. La quistione dei pari aggiornata per la sua soluzione finale: provvisoriamente aggiustata sì che dei pari cinquanta solamente ne scegliesse il re, sul resto pronunziasse il popolo. La camera dei comuni nasceva portando seco il mandato di rivedere e sanzionare lo Statuto; di svolgerlo anzi. — Così messe le cose, restituita all’interno la confidenza, la lealtà, la libertà; all’esterno la dignità nazionale partecipando alla salute ed alla redenzione d’Italia, il popolo sperò, e senza mormorare accettò pure la sovrimposta di un dodicesimo, che, destinata alla spedizione di Lombardia, fu quasi generalmente pagata con anticipazione. Inoltre il corpo della gendarmeria, viziato dalle corruzioni e dalle blandizie del suo capo Delcarretto, si era reso esoso al popolo, il quale per la prima parola pronunziata dopo la rivoluzione ne aveva fulminato l’interdetto. Esso stesso domandava dissoluzione e riforma, e, per riabilitarsi, insisteva di andare in Lombardia a ricevere un battesimo di sangue croato. I liberali, o perchè non fidassero in gente da lungo servaggio demoralizzata, o perchè meritamente avessero troppo alta idea del sacerdozio del soldato, che combatte per la libertà e per l’indipendenza della sua patria, non vollero affidata a birri la santa bandiera tricolore. E così per una delicatezza intempestiva erano allontanati dal campo di battaglia ottomila uomini i quali, non ripugniamo ad asserirlo, sarebbero stati ottomila eroi. In effetti in nessun corpo lo spirito di libertà fecondò meglio che in quello, e lo dimostrò nel tristo giorno del 15 maggio. Il lungo esercizio di despotismo gli aveva forse fatta odiare la tirannide. Il ministero però cedette alle dimostrazioni dei liberali, e cominciò dall’allontanarlo dalla capitale, per quindi ricompaginarlo sotto altro nome, con altri elementi, sopra altri principii.
Il re vedendo che l’opera rivoluzionaria del ministero progrediva indefessa, se ne allarmò, e mise tutto in pratica, per infermarne e paralizzarne il corso. All’eccellente ministro della guerra, Del Giudice, oppose una specie di Comitato estraneo ed incostituzionale, il Comando generale dell’esercito. Questo teneva testa al ministro, ne contromandava gli ordini, ne annullava l’efficacia, e spesso si opponeva nettamente. Al ministro degli affari stranieri, l’egregio Dragonetti, a quello della giustizia, a quello dell’interno, il puro e nobile uomo Raffaele Conforti in cui cuore ed intelletto sono eminenti, a tutti gli altri ministri infine oppose la rutina, l’inerzia, il malvolere di funzionarii pubblici o inetti o ribelli; e dopo averli stancati nelle lotte da casuisti del Consiglio di Stato, in cui mai nulla conchiudevasi, dopo averli messi alla disperazione con ostinatamente e sistematicamente resistere a qualunque proposta, li faceva assalire da uno sciame di vespe impuro e mortale. Gente affamata ed avida d’impieghi barricava incessante le porte del ministero. Non vi era maniera di sbarazzarsi di loro: bisognava assolutamente ascoltarli, bisognava assolutamente soddisfarli; e se si osava resistere, le pistole ed i pugnali corroboravano gli argomenti dei postulanti, come avvenne un giorno al ministro delle finanze Ferretti. L’avanzo di tempo quindi che il re lasciava loro, era divorato da quegl’insani cui il consiglio aulico metteva in movimento e dirigeva contro, come la bocca di una pompa idraulica sull’incendio. Le bisogne più urgenti dello Stato quindi erano postergate: lo scoraggiamento inaridiva i ministri, i quali, pel desiderio di voler essere popolari, addiventavano plebei. La guardia nazionale fu chiamata in loro sussidio; ma a che pro? Le avide passioni della parte corrottissima del popolo erano eccitate dalla reazione sotterranea. Essa inviava gli speculatori d’impieghi al re: e questi, lamentevolmente sclamando lui non valere più nulla, nulla potere più fare per esaudirli come il suo cuore desiderava, gli scatenava sull’impossente ministero e lo agghiadava. Eppure in questi attacchi di perfidie i nobili uomini non soccombettero. Nell’abbacinamento del momento, nel buio delle cagioni che rallentavano la progressione della rivoluzione, l’abilità di quel ministero fu calunniata: ma quindi a poco ragione intera gli fu resa e nome di patriottico ed italianissimo ne riportò. Ah! perchè vollero essi transigere con la reazione e tentare una riconciliazione impossibile!