<dc:title> La rivoluzione di Napoli nel 1848 </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Ferdinando Petruccelli della Gattina</dc:creator><dc:date>1850</dc:date><dc:subject></dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation>Indice:Petruccelli - La rivoluzione di Napoli nel 1848, Genova, Moretti, 1850.djvu</dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=La_rivoluzione_di_Napoli_nel_1848/26._Elezioni&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20240419163123</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=La_rivoluzione_di_Napoli_nel_1848/26._Elezioni&oldid=-20240419163123
La rivoluzione di Napoli nel 1848 - 26. Elezioni Ferdinando Petruccelli della GattinaPetruccelli - La rivoluzione di Napoli nel 1848, Genova, Moretti, 1850.djvu
[p. 92modifica]26. Infine il giorno delle elezioni, ritardato sì lungamente, giunse, il popolo si recò ai comizii tutto quanto era: parte per compiere il mandato di elettori, parte per contemplare lo spettacolo imponente. Vi si recò cantando canzoni patriottiche. Ed era davvero commovente la solennità con cui una gente, per tanto tempo abbrutita, andava ad esercitare il primo atto di un cittadino. Tre parti degli elettori non sapevano nè leggere nè scrivere. Tutte le più malate ambizioni si scatenarono per ispeculare, ciascuna a suo profitto, coll’inabilità di quegli uomini. Ma un istinto maraviglioso, proprio delle anime vergini, li rese sordi alle piccole passioni, alle promesse, e fino alle intimidazioni, ed i nomi di cittadini generalmente liberi ed eccellenti uscirono dall’urna. Erano bastati tre mesi di libertà per distruggere le scorie che tanti anni di schiavitù avevano cumulate intorno all’anime di coloro: era bastato il trovarsi in contatto tanta massa di cittadini per compiere un grande atto di sovranità, perchè le ispirazioni generose li guadagnassero tutti. Eppure avvi ancora [p. 93modifica]dei birri e dei preti che, apostoli dell’ordine, della proprietà e della famiglia, calunniano la libertà! I deputati furono scelti. Poscia invece di segnare i nomi dei pari, su tutte le polizie fu scritto: non ne vogliamo. E così l’anatema del popolo sovrano colpiva una istituzione, che, complicando la macchina del governo, cercava a galvanizzare in vantaggio della monarchia un corpo d’invalidi, il quale non aveva neppure uno spirito a sè. Non pertanto il re ostinossi a mettere in vita questo aborto già sepolto, e senza formarne neppure una casta, proclamò l’indipendenza dell’eredità, sola condizione vitale che potrebbe avere in Napoli la parìa, dove altra non ne ha, nè può averne. — Non un torbido, non una parola amara agitò i comizii. Tranquilli, lieti, dignitosi ritornarono tutti ai loro focolari, e sperarono. La vita aveva acquistato nella nazione qualche cosa di elevato: il carattere aveva assunto qualche cosa di solenne. Il reato era sparito. La guardia nazionale si era organizzata: e non ostante che il governo avesse rifiutate le armi, asserendo mancarne, mentre gli arsenali ne erano ingombri; pure, provvedutasene alla meglio, con alacrità se ne esercitavano le funzioni. In una parola, un avvenire grandioso sembrava sorridere a quel popolo, quando un uragano impreveduto levossi nell’atmosfera; ma quell’uragano levavasi nell’atmosfera per renderla poscia più limpida. Vi era d’uopo di quel gran colpo per dissipare le ultime illusioni, convertire gli spiriti più temperati. La sventura sviluppa la dignità e l’energia delle nazioni come degli individui. Noi arriviamo al terribile dramma del 15 maggio.