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il patto sociale redatto da una sola delle parti senza il concorso dell’altra, anzi senza che all’altra si fosse neppure permesso di rettificarlo. La rivoluzione aveva ricostituita la sovranità del popolo lungamente assorbita nella personalità della monarchia. La sua legittimità ne era stata riconosciuta da quello stesso che, delegato una volta ad esercitare parte di tal potere, intero lo aveva usurpato. Questi rientrava nei limiti che il popolo gli aveva assegnati. E perché questi limiti non fossero ancora una volta oltrepassati, il popolo sovrano li fissava con una legge. - Ebbene, questa legge non solamente non era fatta dal popolo per una costituente, ma, raffazzonata dal principe, negavasi al popolo perfino il diritto di rivederla e sanzionarla. In una parola, si legittimava l’anarchia. A questo vizio organico del patto fondamentale della nazione aggiungevasi: un censo esorbitante sì per gli elettori che per gli eleggibili: l’interdizione della parte intellettuale del paese: l’oblìo compiuto del giurì: l’indeterminazione di tutte le libertà da regolarsi con apposite leggi, e nel tempo stesso un veto assoluto al principe che poteva per questo solo mezzo tutte annullarle legalmente; e la formazione di una camera dei pari totalmente di nomina del re. Queste violenze alla natura normale della nazione raddoppiavano il malessere sociale. In un paese povero, assolutamente agricolo, senza industrie, senza commercio, incatenato nello sviluppo di tutte le sue attività, l’elevazione del censo interdiceva l’esercizio dei suoi diritti sovrani a nove decimi della popolazione. - Gli uomini addetti alle speculazioni intellettuali, in un paese in cui l’intelligenza è una sventura che trascina