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seco gli anatemi del clericato e le persecuzioni della polizia, tali uomini, i soli illuminati, i soli capaci di rappresentare le alte funzioni della sovranità nazionale, perché poveri, da queste funzioni erano rimossi. E nel tempo stesso vedevasi lo strano spettacolo che quel Bozzelli, il quale non aveva neppure il censo per essere elettore, era ministro. In un paese infine in cui l’aristocrazia non ha radice, non ha esistenza, non ha interessi né speciosi né parziali, non ha in una parola che un povero titolo poveramente trascinato nelle officine delle segreterie, nei ranghi dell’esercito o nelle scuderie della corte: in tal paese una camera dei pari, oltre al non avere necessità di esistenza, oltre all’essere avversa a tutti gl’istinti e tradizioni nazionali, era innormale, anacronistica, non poteva rappresentare che interessi fittizii, ossia abusi, ossia usurpazioni monarchiche, non poteva essere saturata che da vescovi, arcivescovi, servidorame di corte e pubblici funzionarii. In una parola, la camera dei pari era un inutile fardello, un attentato alla sovranità nazionale, una mostruosità, un’appendice dell’usurpazione monarchica. Il popolo tutto l’abborriva. Il ministero quindi, col programma del 5 aprile, promise raddrizzare questi storpii, e vi pose mano. La legge elettorale fu profondamente cangiata: il diritto di suffragio esteso ad un maggior numero di cittadini, e sottratto all’influenza del campanile: la parte intellettuale riabilitata interamente. La quistione dei pari aggiornata per la sua soluzione finale: provvisoriamente aggiustata sì che dei pari cinquanta solamente ne scegliesse il re, sul resto pronunziasse il popolo. La camera dei comuni nasceva portando seco il mandato di rivedere e sanzionare lo Statuto; di svolgerlo