La rivoluzione di Napoli nel 1848/24. Federazione italiana

24. Federazione italiana

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[p. 83 modifica]24. Si era messo mano alla guerra dell’indipendenza da cui doveva derivare la libertà e l’individualità della Penisola; bisognava spingerla avanti con vigore e con coscienza. Per compierla a vantaggio d’Italia vi era d’uopo che i suoi popoli tutti s’intendessero, tutte le provincie ravvicinate concorressero con ogni sforzo per effettuare il concetto grandioso di Carlo Alberto: l’Italia farà da sè. Il ministero Troya cominciò a lavorare. Dei delegati furono incontanente inviati a Roma per trattare della federazione, il cittadino Leopardi a Torino per appianare le difficoltà col governo di Piemonte. E se l’atto non fu conchiuso non debbesi incolpare il ministero napolitano, che di sua parte vi [p. 84 modifica]spiegò senza limiti buona fede e disinteresse. Ma re Carlo Alberto si era inebbriato. Il coraggio, l’accordo, la decisione mostrata dai Milanesi nelle giornate di marzo: la rotta degli austriaci e la loro ignominiosa fuga innanzi ad un popolo senza armi: la rivoluzione di Vienna: il movimento manifestatosi in Alemagna, promettevano vittoria facile e sicura. Carlo Alberto credette bastar solo. Volle monopolizzare la vittoria, il patriottismo, la gloria. Inoltre le notizie della rivoluzione di Milano e di Vienna avevano eccitati gli spiriti italiani da un capo all’altro della penisola, sì che il sole il quale aveva illuminate le rotte di Federico Barbarossa sembrava spuntato un’altra volta sull’Italia. Era dovunque un tripudio, un armarsi per correre sui campi lombardi; non si ambiva che compiere il sacro dovere di cittadino, sacerdozio sublime che in Italia ha per prima e suprema missione: guerra all’austriaco! Tutti i principi italiani, rimorchiati loro malgrado dall’entusiasmo popolare, aveano ceduto ai tempi, ed inviati volontari e soldati per raggiungere il Carroccio messo fuori dal re sabaudo. Napoli stessa aveva spediti parecchi squadroni di ardenti militi, la cui turbolenza angustiava il governo, ed un reggimento che fece così bella mostra di sè. La gioventù italiana, mollemente educata e demoralizzata dai preti, più non si riconosceva: la loro anima sembrava raddoppiata, cangiata di tempra. In Vienna d’altronde l’iniquo governo era stato colpito sulla fronte, e la vecchia macchina, sfasciata, andava in ischegge. Un alito nuovo spirava nella politica: nuove mani avevano assunto il governo di un corpo che cadeva a brani. Le nazionalità dell’impero si risvegliavano tutte l’una dopo l’altra. La stella dell’Austria sembrava già [p. 85 modifica]tramontata. Ispirato da tante favorevoli opportunità, Carlo Alberto teneva in pugno la vittoria, e l’aggregazione del Lombardo-Veneto ai suoi Stati. E chi sa, che non vagheggiasse pure la grande idea della concentrazione d’Italia! Ogni patto quindi con gli altri governi italiani gli sembrò un compromesso, e lo rigettò come inopportuno. Egli disse: facciamo la guerra, restiamo padroni di casa nostra noi, poi comporremo in famiglia le domestiche differenze. Aveva torto? io penso di no. Il bisogno vitale d’Italia è l’indipendenza dallo straniero, è l’essere nazione. Fino a che non domina le Alpi; fino a che le chiavi della Penisola sono in mano di un barbaro che può scendere a devastarla ogni qualvolta una nuova avidità lo tormenta; qualunque accordo, qualunque equilibrio, qualunque libertà si diano quelle frazioni di popolo, sono in balia di un nemico che o le può spezzar con la forza, o con un veleno occulto dissolverle. La pressione costante, che una razza straniera ed avversa esercita attivamente sulle popolazioni italiane, rende impossibile ogni seria coesione fra loro: chiamarvela a parte, gli è infiltrarsi un principio dissolvente che prestamente tutto corromperebbe. Vi è nella natura dei due popoli qualche cosa di ostile e d’incompatibile che mai non riposa, e di cui è impossibile l’amalgama. Fino a che dei legami di violenza le tengono congiunte, nè l’Italia nè l’Alemagna raggiungeranno mai una soluzione intera della scambievole organizzazione, una libertà di azione per compiutamente svilupparsi. E perciò porteranno entrambe mai sempre in sè un germe di debolezza e di morte. Carlo Alberto quindi non aveva torto, se, respingendo la federazione, diceva: mandatemi uomini ed armi: [p. 86 modifica]aiutatemi a cacciare l’austriaco, e, riscattata l’Italia, ne regoleremo le sorti. Agl’italiani d’altronde nulla importava che Carlo Alberto avesse disegno d’ingrandirsi, e che fosse stata la Casa di Savoia che li avesse uniti in un fascio e dato loro una patria ed una vita. Lo ripeto, e mai non mi stancherò di ripeterlo, la nostra condizione di esistenza, unica, inevitabile, è l’essere un popolo, formare uno stato, esser retti da un solo governo, abituarci a riconoscerci italiani, obliare la vecchia geografia, le vecchie puerilità di vanagloria municipale, le vecchie gelosie, in una parola tutta l’opera del medio evo. E sia il papa o il duca di Parma, Radetzky o Ferdinando Borbone, la monarchia o la repubblica che ci apporti tale normale situazione, passato il periodo della violenza, assisi nella famiglia delle nazioni europee, come da un gran popolo si debbe, penseremo allora alla forma del reggimento con cui sviluppare la vita interiore e manifestarci all’universo. Carlo Alberto comprese essere nella sua casa l’elemento virtuale della fusione delle genti italiane. Ai suoi disse: "il nostro bivacco è sul Brenner; alla plebe degli altri principuzzi: seguitemi". A costoro ciò suonò male; ed il piemontese fu accagionato di ambizione. Le negoziazioni quindi si ruppero: ma delle altre occulte ne furono invece conchiuse. Allora il papa si risovvenne che era principe cattolico e prete, che era contrario al suo ministero fare la guerra, e che nella Genesi sta scritto io domanderò conto agli uomini della vita degli uomini, al fratello della vita del fratello: e chiunque verserà il sangue umano, il suo sangue sarà versato del pari, perchè l’uomo è creato ad imagine di Dio. Allora il gesuita di Toscana s’impegnò [p. 87 modifica]di rallentare qualunque entusiasmo nei suoi sudditi, permettendo loro di tutto sperare e nulla fare. Ed il re di Napoli promise che avrebbe fatto sorgere presto un’occasione per richiamare la flotta ed il corpo di armata che il ministero Troya si era affrettato a far partire; e se non avesse potuto rallentarne la marcia ne avrebbe adulterato lo spirito. In effetti il ministero, mentre le negoziazioni della federazione pendevano, per dimostrare la sua decisione, aveva senza perder tempo incontanente spedita la flotta nelle acque di Venezia sotto il comando dell’ammiraglio de Cosa, formato un corpo di dodicimila uomini di truppa eccellente, e l’aveva diretta verso Bologna per farla subito entrare in campagna. La scelta del generale in capo della spedizione era stata lungamente discussa. Vi era chi proponeva il Filangieri: ma la natura dubbia e versatile di quell’uomo mise in sospetto la più parte dei liberali, i quali d’altronde credettero dare un pegno di affetto e di simpatia al generale Guglielmo Pepe, venuto di fresco da Francia, chiamandolo a capitanare quella spedizione. E fu questo un giusto tributo che rendevasi alle virtù cittadine e militari di un martire illustre della libertà; ma assente per ventotto anni di esilio dalla sua patria e nuovo affatto nella famiglia militare, tanto attaccata alla gerarchia, egli doveva incontrare gravi difficoltà e dolori nell’assumere il posto cui veniva eletto dalla nazione. L’esito comprovò la verità di questi timori.