La poesia cavalleresca e scritti vari/Scritti vari/III. Pagine sparse/La scuola

III. Pagine sparse - La scuola

../Sulla Viola Mammola di Nannina Amata. A' miei giovani ../Discorsi per le Feste Ariostee a Ferrara IncludiIntestazione 26 gennaio 2023 75% Da definire

III. Pagine sparse - Sulla Viola Mammola di Nannina Amata. A' miei giovani III. Pagine sparse - Discorsi per le Feste Ariostee a Ferrara
[p. 289 modifica]

LA SCUOLA


Chiedo scusa a’ lettori dell’Antologia del mio lungo silenzio. Ma cosa farci? Il mio cervello è ora tutto scuola, e li dentro non ci cape che una cosa alla volta. Sicché risolvendomi pure a voler ricomparire innanzi a loro, sieno contenti che io gl’intrattenga un po’ della mia scuola: ché non saprei davvero parlar d’altro.

Una scuola non mi par cosa viva, se non a questo patto, che accanto all’insegnamento ci stia la parte educativa; una ginnastica intellettuale e morale, che stimoli e metta in moto tutte le forze latenti dello spirito. Il meno che un giovane possa domandare alla scuola è lo scibile, anzi lo scibile è lui che dee trovarlo e conquistarlo, se vuole sia davvero cosa sua. La scuola gli può dare gli ultimi risultati della scienza, e se non fosse che questo, in veritá una scuola è di troppo; tanto vale pigliarli in un libro quei risultati. Ciò che un giovane dee domandare alla scuola è di esser messo in grado che la scienza la cerchi e la trovi lui. Perciò la scuola è un laboratorio, dove tutti sieno compagni nel lavoro, maestro e discepoli, e il maestro non esponga solo e dimostri, ma cerchi e osservi insieme con loro, si che attori sieno tutti, e tutti sieno come un solo essere organico, animato dallo stesso spirito. Una scuola cosí fatta non vale solo a educare l’intelligenza, ma, ciò che è piú, ti forma la volontá. Vi si apprende la serietá dello scopo, la tenacitá de’ mezzi, la risolutezza accompagnata con la disciplina e con la pazienza; vi si apprende innanzi tutto ad essere un uomo.

Cosi ho sempre concepita io la scuola, e sempre mi è parso cosa facile; perché lá dentro io ci mettevo tutto me, e godevo di [p. 290 modifica]vedermi giorno per giorno sbocciare innanzi questo e quel fiore, ora rivelarsi una intelligenza, ora disegnarsi un carattere, ora un rozzo spirito visibilmente trasformarsi. A Zurigo il 9 agosto del i856 ricevei una lettera che conservo, cara memoria. Cito alcuni brani:

Quale impressione ha fatto su di me la vostra scuola, non posso dire. Mi sento un altro. Perdonate, se anch’io, lo scolaro, sciolgo il freno a’ miei intimi sentimenti. Voi siete il mio gran benefattore, ed io sono il gran debitore. Non sono adulatore, parlo col cuore sincero di buon tedesco. E potessi io divenire il vostro amico! Ma, giovane inesperto ancora, senza profonde cognizioni, non posso essere vostro amico adesso: troppo grande è la differenza. Spero di esserlo piú tardi, quando mi son fatto degno, divenuto uomo di pratica, di carattere provato, di piú fina coltura. Questa sará la mia mira. Se mi sará permesso di stringere un giorno con voi il legame dell’amicizia, questo mi nobiliterebbe, mi migliorerebbe. Che bella relazione è tra maestro e scolari, come voi l’intendete! Cosi, penso, intendeva Socrate l’uffizio di maestro. Voi non volete solo insegnarci quello che sapete; ma vivere con noi, studiarci, formare il nostro spirito, farci buoni cittadini e capaci figli delle scienze «per continuo influsso». Divenuto anch’io maestro un giorno, seguirò il vostro sistema alla meglio, voglio dirmi il vostro scolaro nel vero senso.

Era appena un anno che assisteva alle mie lezioni. Ci venne ispido, timido, tutto ancora involuto in sé. Stava li in fondo, solo, non curato da alcuno. E venne alfine il suo giorno. Scrisse un buon lavoro, tutti gli occhi furono sopra di lui, piacque a sé stesso. E, come dice lui, si senti un altro. Gli è che quell’altro gli si era andato formando a grado a grado al di dentro, per continuo influsso, come egli dice nel suo linguaggio pittoresco. E la scuola è appunto questo continuo influsso.

Una scuola simile ho iniziata in Napoli, sono pochi mesi. Qui era la tradizione della prima scuola1. Mi presentavo ai figli de’ miei vecchi discepoli. Avevo gran desiderio di tastare questa [p. 291 modifica]nuova generazione, nella quale sono poste le sorti dell’edifizio tumultuario e frettoloso da noi innalzato. E l’ho trovata migliore della sua riputazione. S’era fatto un gran dire de’ nostri milioni d’analfabeti, de’ pessimi esami liceali, e mi sonava ancora all’orecchio quell’«abbasso Senofonte!», che fece il giro di tutta Italia. Ma non è col vilipendio che si forma una generazione. Quanto a me, dico schietto che ho ritrovata la mia gioventú napolitana, come stava nella mia memoria. L’ambiente è mutato: non ci è piú quell’aria di sentimentale alla Byron o alla Leopardi, che rivelava aspirazioni confuse e non soddisfatte, di che è rimasto tipo tradizionale Luigi La Vista2. Allora eravamo tutti malati, maestro e discepoli, malati del mal del paese. Oggi la patria c’è; e la gioventú tra un ideale soddisfatto e un altro da venire e non ancora ben chiaro, sta senza bussola, senza un di lá, e si chiama positiva. Gli è come marito e moglie, soddisfatti oramai ed annoiati della loro soddisfazione, perché in essi non è penetrato ancora il sentimento di una vita nuova e piú seria; la famiglia è fuori ancora del loro spirito. La gioventú è nella sua luna di miele, sazia di patria e di libertá, felice e annoiata della sua felicitá, perché non si è messa ancora in cammino verso nuovi orizzonti. Indi quella sua aria un po’ svagata e distratta, che ci ha colpiti e disposti male. Ora rinnega l’ideale, perché non ne ha alcuno, e cerca e non trova il reale, e si chiama e non è «positiva», e, contenta a quel nome nuovo, non pensa a rinnovare la sua sostanza, e se la passa cosí tra spensierata e annoiata. Ma è stato transitorio. Comincerá anche per lei vita nuova e veramente positiva. Libertá e patria è una ereditá acquistata senza fatica sua. Il suo còmpito è rendere questa ereditá cosa positiva, dare alla libertá un contenuto e fissarlo bene nella coscienza, rifare e realizzare lo spirito italiano, fondare, sotto a quella unitá geografica che si dice la patria, l’unitá intellettuale e morale. L’ereditá acquistata è una forma quasi ancora vuota; il suo còmpito è farne cosa viva e [p. 292 modifica]organica, un contenuto ricco e omogeneo. Questo verrá. Perché, sotto questa apparente svogliatezza, trovo l’antico fondo della nostra gioventú ancora incorrotto: quella ricca immaginazione, quell’amore del sapere, quella febbre delle lettere, quel desiderio di cose nuove. Sono forze altere che tumultuano nel loro ozio. Date a quelle uno scopo chiaro e ben definito, e avrete la disciplina tenace e pacata di forze messe in esercizio.

Cominciai la scuola con questo disegno, di associare i giovani al mio lavoro, e fare che ciascuna lezione fosse il prodotto di un lavoro collettivo. — Spiegherò il soggetto di una lezione, indicherò le indagini, le analisi, i libri da consultare, i materiali da raccogliere, e poi li comporremo, li formeremo, «et lux facta est», e la lezione è fatta. Avremo forse una sola lezione in un mese, ma sará frutto del lavoro collettivo di tutto il mese — . Ciascuna lezione sarebbe stato un avvenimento. I giovani l’avrebbero veduta nascere, formarsi, acquistar colore. Questo è il laboratorio com’io l’intendo. Questa è la scuola normale. Ma vidi subito non esser possibile cominciare cosí. Mancava quella certa uguaglianza di coltura, quella comunione degli spiriti, che renda possibilmente armonico un lavoro collettivo. Di giovani ce n’era troppi, vogliosissimi, con abitudini teatrali, impazienti di sentir cantare il maestro e battergli ls mani. Quando dissi a certuni che avrei fatta una lezione sola al mese, mi guardarono in faccia, come avessi detto un grosso sproposito. Il mio sistema richiedeva una modestia e una pazienza di lavoro troppo lontana dalla scuola accademica, quale ancora è oggi. Mi risolvei dunque di cantare anch’io, lavorando la mia lezione tutto solo ed esponendo a’ giovani i risultati del mio lavoro. Ho dovuto sul principio andare molto adagio, passo passo, e fermarmi a ciascun passo, e tirar bene la loro attenzione su’ passaggi e sul cammino del discorso, e introdurli con molta cautela nelle analisi piú delicate, riassumere, render conto di ciascuna idea, inframmettere teoria e critica, usare forma popolarissima e chiarissima. Cansavo al possibile le formole, le definizioni, le regole troppo meccaniche e assolute; perché i giovani inclinano al dommatismo, e, se possono afferrare una regola o [p. 293 modifica]una definizione, credono avere in mano la scienza, e studiano e giudicano a priori, secondo certi preconcetti. Questo impedisce in loro lo sviluppo dello spirito critico, vizia l’impressione e il gusto, sostituisce alla loro spontaneitá una coscienza artificiale. La scuola, quando non vi si rinnovi spesso l’aria, genera quell’insetto roditore del cervello, che dicesi pedanteria. E primo ci capita il maestro, quando non abbia la forza di ventilare la sua intelligenza e si addormenti sulle sue teorie, e ripeta meccanicamente se stesso. Il che induce nel giovane la mala disposizione a volere in ogni caso singolo guardare le generalitá e non quello che esso ha di proprio e d’incomunicabile, la sua individualitá o personalitá, dov’è la sua vita. Mi ricordo che nella mia prima scuola, quando un certo indirizzo intellettuale e morale durava un par d’anni, giá ci si sentiva la maniera, l’abitudine, il meccanismo, e saremmo impedantiti tutti, se non fosse stato in noi il vigore e l’entusiasmo della gioventú, che ci teneva in un movimento continuo di formazione e di progresso. Negli ultimi anni la maniera fu un certo sentimentalismo fiacco e tutto d’immaginazione, a cui successero presto, come antidoto, i ritratti storici e letterari. Non dava tèmi, ciascuno li cavava da’ suoi studi e dalle sue inclinazioni. Pure prevaleva a quando a quando una certa natura di argomenti, una certa intonazione, e quello che prima era spontaneo e naturale, diveniva freddo e artificioso. Ma ci era un gran correttivo: la discussione, la continua lettura, l’attrito delle opinioni, un orizzonte spesso rinnovato. Io ho sempre stimato che la sostanza della scuola è tutta in questa parte educativa, la quale regolata bene darebbe buoni frutti, posto pure che il maestro fosse poco felice nelle sue lezioni accademiche. Perciò al mio soliloquio ho voluto aggiungere il dialogo, una discussione pubblica sopra quel lavoro, che mi fosse parso piú acconcio ad essere studiato con profitto. Le difficoltá sono grandi. E prima ci è la noia. I giovani che discutono non sono tutti aquile. E non tutt’i lavori sono interessanti. Lo sbadiglio è l’accompagnamento obbligato delle accademie e de’ parlamenti: che dire di una scuola? soprattutto per quelli che ci vengono con animo piú di spettatori che di attori. Poi, [p. 294 modifica]ci è in fermentazione tante piccole passioni, tante naturali tendenze della gioventú: l’amor proprio che si ribella, una certa superbietta che spunta, la gelosia, la tristezza, la presunzione e la pretensione. Perché questo esercizio possa andare, è dunque mestieri creare nella scuola un’atmosfera morale. Alcuni non ci resistono, ma quelli che ci stanno, si trasformano, si sentono un altro, come diceva il mio tedesco lá a Zurigo. E questo è grande beneficio: perché tutte quelle passioncelle ingrandiscono con l’etá, acquistano consistenza, e formano quel medium morale, che dá una fisonomia alle classi intelligenti. Per me è fuori di dubbio, che, se ne’ nostri uomini anche piú colti ci è una certa debolezza di tempra, se in loro generalmente la sagacia è astuzia e intrigo, l’ambizione è vanitá, la collera è stizza e pettegolezzo, la volontá è velleitá, e l’idea è opinione, si dee in gran parte alla poca virilitá dell’educazione scolastica. Alla fiacchezza de’ corpi si provvede ora con la ginnastica; non ci è anche una ginnastica per corroborare gli animi? Dirò che non ho dovuto penar molto a formare quest’atmosfera morale. I giovani sono naturalmente docili e generosi; e la vostra autoritá è irresistibile, quando voi vi fate stimare da loro per la vostra imparzialitá e rettitudine, per la serietá che mettete nel vostro ufficio. Molto ancora è a fare; ma ormai ci è giá una fisonomia della scuola, una certa misura ne’ sentimenti e nelle forme, che ci rende impossibile la volgaritá e la bassezza. Opera non meno difficile è l’educazione intellettuale. E, per conseguire questo scopo, io soglio attirare l’attenzione meno sulla veritá e falsitá del contenuto, che sul modo col quale il contenuto è organizzato. I giovani sono inclinati alle disputazioni astratte, massime i napolitani, di cosí pronto eloquio, d’ingegno cosí sottile, tutti avvocati nati. Ciò che io domando piú spesso, è questo: — Ci è qui un disegno? e se ci è, è bene sviluppato? l’analisi è esatta? è ben distinto dagli accessori il sostanziale? — . Passo poi alla proprietá e al colorito della espressione. Non è giá che sieno queste per l’appunto le mie domande; vario molto, mi lascio tirare dalla natura del lavoro. Ma la mia attenzione è quella. Miro a sviluppare ne’ giovani le forze intellettuali, [p. 295 modifica]avvezzandoli alla serietá e precisione del disegno, alla correzione e proprietá dell’espressione, e svegliando in loro quel vigore e nesso logico, che manca alla piú parte dei nostri scrittori. Credo piú utile questo esercizio che le grammatiche, le rettoriche, le arti dello scrivere e le logiche. E qui altre difficoltá. Mi son veduto piovere addosso drammi e commedie, gli argomenti piú semplici prendevano le proporzioni di un libro, piú povera era l’esecuzione e piú vasta era la concezione. I giovani sono inclinati al generalizzare, e quanto minore è in loro il senso pratico e positivo della vita, tanto piú vi abbonda l’immaginazione, e stanno volentieri nel vago, nell’indefinito. Aggiungi le nostre enciclopedie, le nostre filosofie della storia, i nostri sedicenti corsi ideali, e, con queste tendenze e con tutta questa roba in capo, la nuova generazione osa chiamarsi positiva. Una volta diedi questo tema: «Fatemi un ritratto del Pulcinella». Avevo innanzi il bel ritratto di Goethe, cosí succoso nella sua brevitá3. Ed ecco sfilarmi davanti de’ veri trattati su quella maschera, e delle farse, e fino delle commedie. Il piú bello è che Pulcinella rimase annegato fra tante qualitá che gli affibbiarono, spesso contradittorie, sicché dovè parere a molti un personaggio assurdo. Mancava la forza di cogliere in tante varietá apparenti la nota fondamentale, che dá un carattere a quella maschera. Tre venerdí furono consacrati a questa discussione. Ci furono una ventina di lavori, parte letti e discussi, parte esaminati da me in modo sommario. Un venerdí lesse il suo lavoro Giorgio Arcoleo. Si fece subito silenzio, c’era una certa aspettazione. Un altro suo lavoro l’avea giá messo tra’ migliori, e nella scuola si forma presto una gerarchia naturale e riconosciuta, la gerarchia dell’ingegno. Il suo lavoro fu udito con molta attenzione, e in parecchi punti ’interrotto da segni non dubbi di approvazione. Io voglio farvelo sentire4.

— O che roba! mi direte. Non si poteva mo’ dire questo medesimo in due pagine? — Fatto è che agli uditori non parve [p. 296 modifica]lungo. E il nostro Arcoleo, quando ebbe finito di leggere, aveva la faccia radiante tra’ «bravo» e i «bene» che gli venivano da molti lati. Comincia la discussione. — Che ve ne pare? chiesi al signor Giliberti: ditemi la vostra impressione. — Questa è abitualmente la mia prima interrogazione. Io sto molto all’impressione. Desidero che il giovane prenda le mosse non da regole astratte, ma da se stesso, da quello che si passa nel suo animo, e si avvezzi cosí a guardarsi in sé, a cogliere i suoi minimi moti interni, a sentirsi ed a sapersi. Questo lo tiene nel vivo e nel concreto, gli sveglia lo spirito critico, gli forma un mondo piú virile, il mondo della riflessione e della coscienza. — Che ve ne pare, signor Giliberti? — E il Giliberti: — La mia impressione è questa, che il lavoro è riuscito a cattivarsi la mia attenzione, si che ho potuto seguirlo senza fatica, anzi in certi punti con vero piacere: pure in conclusione non ho ancora innanzi il carattere del Pulcinella, e mi è parso che il Pulcinella sia qui piuttosto l’occasione che l’argomento — . L’impressione era giusta. E la discussione non fu se non l’analisi e lo sviluppo di questa impressione, che a poco a poco si andò trasformando in un giudizio bello e buono, fondato sui principi eterni dell’arte, che ciascuno, cercando bene, trova in un cantuccio spesso dimenticato della propria anima. Il Pulcinella innanzi al signor Arcoleo si era subito svaporato in una vuota generalitá, come è il caso appunto de’ giovani. Non fu piú un individuo, fu un simbolo, il nome proprio del comico preso nella sua generalitá, un Pulcinella sfumato tra’ vapori del cervello, e, come dice l’autore, guardato col cannocchiale. Accostandosi un po’ piú all’argomento, gli è venuta un’idea giusta. — Pulcinella, ha detto, non è il prodotto di un individuo, è figlio dell’istinto popolare. — Ma, se prima avea troppo generalizzato, qui ha troppo esagerato. Perché su questa via ciò che è innanzi al suo spirito non è il Pulcinella, ma il popolo, e si avvezza in quello a guardar questo. Anche qui Pulcinella non è un individuo vivo e libero, ma la figura di un altro. Poi, come l’individuo è qui sperduto tra le generalitá e le esagerazioni, non c’è un centro, voglio dire un tipo essenziale, intorno a cui si raggruppi tutto [p. 297 modifica]il resto, sicché hai un continuo accavallarsi d’idee e d’immagini senza tregua, e all’ultimo non ti resta nello spirito niente di netto e di conchiuso. Di che nasce ancora la qualitá della forma, niente riposata, anzi tumultuosa, e talora impropria, tutta a raffronti ed antitesi, ad allusioni e rapporti, impaziente della ricerca e dell’analisi, affermativa, assoluta e perentoria, e, per paura del luogo comune, troppo distillata. Pure, che copia d’idee e d’immagini! che facilita di movente e di rapporti! quale moto continuo e rapido di discorso, si che non ti arresti mai, mai non stagni! Ti senti in presenza di un ingegno non ordinario. Che cosa manca al nostro Arcoleo? Letture ha troppe e d’ogni sorta; reminiscenze involontarie gli si affollano; notizie d’idee e di cose ha da affogarvi entro; molti mondi smozzicati, contradittori cozzano, nel suo cervello; che gli manca? Lui stesso lo ha detto: perché, all’ultimo, preoccupato dall’aria della scuola, previene la critica e se la fa lui. Gli manca un senso della vita piú esatto e concreto «attraverso le cose e non attraverso le idee», come lui dice assai bene. E non giá perché sia miope, come crede, anzi è presbite; vede da lontano e in confuso, e non vede le cose piú vicine. E gli manca pure un mondo suo elaborato tra’ dolori e le gioie della sua coscienza. Molti rimangono cosí in aria, e non conchiudono. Conchiuderá il signor Arcoleo?

Ma è tempo che conchiuda io. E la mia conchiusione è questa, di poter lasciare dopo me una scuola che mi continui, e mi parrá di non esser vivuto indarno, quando il frutto della mia vita sia una scuola, dove non sia solo rinnovata l’intelligenza, ma tutta l’anima; ciò che io chiamo educazione.

  1. Dal i838 al i848.
  2. Studente ucciso in Napoli dagli Svizzeri il i5 maggio i848. Il professore Villari ha con pietosa cura raccolti e pubblicati i suoi scritti.
  3. Nel suo Carnevale, parte II del Faust.
  4. [Seguiva la lettura del lavoro dell’Arcoleo. Lo si veda nella Nota, pp. 36i-368].