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III. Pagine sparse - Discorsi per le Feste Ariostee a Ferrara

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DISCORSI PER LE FESTE ARIOSTEE A FERRARA


Quasi non è piú bisogno che altri parli, poi che il presidente del Comitato ha espresso cosí bene i suoi intendimenti, e il ministro ha indicato con precisione il carattere nazionale di questa festa. E se desiderate che dica io pure alcuna cosa, gli è, credo, non per altro merito se non del mio amore all’arte, alla quale ho consacrata ima gran parte della mia esistenza. Il Comitato ha espresso i suoi intendimenti; permettete a me che esprima le nostre impressioni. Noi troviamo qui imi te tre feste: una mostra agricola, e poi onoranze a Savonarola, il quale, se avesse avuto innanzi i libri dell’Ariosto, li avrebbe di certo bruciati; e poi onoranze a Ludovico Ariosto, il quale, se avesse avuto innanzi il Savonarola, l’avrebbe ucciso, con quel sorriso che bastò ad uccidere tutto quel bel mondo feudale di trovatori, di castellani e di cavalieri. Come dunque si è potuto unire insieme Ariosto e Savonarola e ficcarci per terza una mostra agricola? Come unire concetti che l’uno grida contro l’altro? Eppure, o signori, queste cose si unificano e diventano amiche, perché queste cose, l’attivitá industriale e agricola, il sentimento religioso e il sentimento dell’arte, sono le condizioni che si richiedono alla grandezza di un popolo. E il Comitato, unendo queste cose insieme, ha voluto fare come un augurio all’Italia, che raggiunga questa triplice grandezza. I nostri antichi aveano anch’essi le loro feste, e incoronavano imperatori e poeti, gli imperatori che erano da Dio, e i poeti anch’essi divini e che chiamavano «geni», quasi come qualcosa che fosse al di sopra [p. 299 modifica]dell’uomo, e che si poteva adorare, non si poteva comprendere. E nella loro ingenuitá moltiplicavano queste divinitá; e se chiamavano «divino» Ludovico Ariosto, chiamavano anche «divino» Pietro Aretino. Oggi non ci sono piú divinitá, non c’è piú piedistallo; non vogliamo adorare piú, vogliamo comprendere. L’uomo si rivela all’uomo, e noi vogliamo poter dire al genio: — Uomo tu sei, nella tua grandezza c’è parte di noi, e forse tu non sei che la nostra voce e la nostra eco — .

Perciò, se dalle feste antiche usciva piú un’adorazione incosciente che una intelligente ammirazione, dai nostri centenari deve uscire qualche nuova idea, qualche veritá, una coscienza piú chiara di quel grande uomo che vogliamo festeggiare. Ond’è ch’io mi rallegro col solerte e intelligente Comitato ordinatore delle feste, che ha qui invitati tutti gli ingegni e tutte le colture, perché coll’opra comune si dia un passo di piú nella scoperta dei mondi creati dal genio, che paiono cosí chiari, cosí lucenti, e sono cosí poco e cosí tardi accessibili all’occhio della scienza. Esso ha sentito che se queste feste clamorose, allegre, affollate, con tanto lusso decorate, dovessero riuscire vuote di pensiero, non sarebbero altro che una rediviva Arcadia; assai simili a certe feste religiose, alle quali, mancata la fede, non rimane altro carattere che di passatempi popolari. Sicché io felicito il Comitato e d’avere ordinato studi e lavori, e di avere invitato chiari uomini a discutere, e se ne uscirá qualche notizia importante, o qualche lampo di veritá, un risultato ci sará di certo. Ma, quale si sia il risultato scientifico, un grande effetto morale si è giá ottenuto. Noi abbiamo mostrato che, tornati appena noi, il primo nostro bisogno è stato di andare cercando i nostri maggiori, riannodare le tradizioni, e studiarli e comprenderli e farli nostri.

Noi non siamo piú come i nobili degeneri che ignorano fino il nome dei loro antenati quasi per rossore del paragone, e non siamo neppure piú quegli italiani di un giorno che si addormentavano sulle glorie del passato, intenti piú a magnificare i morti che a educare e nobilitare i vivi. Noi siamo i risorti che vogliamo ritrovare i nostri grandi da lungo tempo smarriti, con l’animo di chi sente che noi pure valiamo qualche cosa, e vogliamo [p. 300 modifica]essere i loro eredi davvero, e infondere in noi qualche cosa di loro, giacché vera grandezza è, non popolare le piazze di monumenti agl’illustri maggiori, ma imparare a comprenderli e saperli emulare. Questa è la meta alla quale dobbiamo tutti mirare, questa è l’Italia futura. E poiché ha voluto far liete queste feste della sua presenza il nipote di Carlo Alberto e il figlio di Vittorio Emanuele, io gli auguro che egli sia tanto fortunato, che possa assistere e presiedere ad uno spettacolo ancora piú grande che non è stata l’unitá d’Italia, all’unitá degl’italiani; sicché non ci sieno solo grandi italiani, ciò che non è mancato mai all’Italia, anche ne’ tempi piú tristi, ma ci sia un grande popolo, degno di onorare e di comprendere i suoi antenati.