La poesia cavalleresca e scritti vari/Scritti vari/III. Pagine sparse/Sulla Viola Mammola di Nannina Amata. A' miei giovani
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SULLA «VIOLA MAMMOLA» DI NANNINA AMATA
a’ miei giovani
La prima volta ch’io son venuto qui, desideravo tanto di trovare in voi degli amici, e non lo speravo. Io mi lasciava dietro tanti cuori che battevano per me, e spesso, lo confesso, parlando a voi, io pensava a’ miei cari. Mi pareva che quelli solo sapessero amare, e che nessuno mi potrebbe essere amico al pari di loro. Ma l’uomo lontano è a poco a poco dimenticato e tenuto come morto; poco tempo è scorso, e giá chi volete che pensi piú al povero professore? Io mi sento solo, piú che mai solo; e non mi rimane che il vostro affetto. Siete stati si buoni con me; mi avete date tante testimonianze di stima e di amicizia; il vostro professore comincia ormai ad aver piú confidenza in voi, e ve ne fa fede, aprendovi con tanta effusione il suo cuore. Voi troverete in me la stessa caldezza d’affetto, lo stesso zelo; e quando acquisterete piú larga conoscenza del mondo, quando con dolorosa maraviglia vedrete intorno a voi cangiarsi persone nelle quali avrete avuto piú fede, se vi ricorderete ancora del vostro professore, direte: — Egli si che ci amava! e non si è cangiato mai; la natura gli aveva dato un nobile cuore — .
Nel semestre passato una poesia del Manzoni ci è stata cara introduzione agli studi; ora voglio che la nostra stella mattutina sia la santa immagine di una giovinetta di quindici anni. Io non l’ho mai veduta; eppure, dopo che ho letto alcuni suoi versi, mi par di conoscerla; e spesso me la veggo venire innanzi con quella sua fronte schietta e mesta, con quegli occhi pensosi: la sua poesia è chiara come uno specchio, e ci si vede tutta la sua immagine. E quando penso a tante altre creature angeliche, che col crescer degli anni non sanno resistere al riso ironico del mondo, infino a che ridono esse prime della loro antica anima e non la riconoscono più e la rinnegano; io non so, me ne rimprovero quasi, ma pure il dirò; sento come un’amara gioia che questa cara giovinetta sia morta, morta nel fiore della innocenza, pura e santa come ella era discesa dalle mani di Dio. La morte ha reso indestruttibile la sua immagine, e voi potete contemplarla ed amarla, senza temere che il disinganno vi costringa un giorno a scacciarla dal cuore e a dire amaramente: — Io m’era ingannato — . Povera Nannina! la tua poesia fu come il canto del cigno, un ultimo lamento funebre che recitasti a te stessa! Eri sola nella tua cameretta; sola e trista; ti sentivi morire, Nannina! Quando la tristezza ci vince, sentiamo come una specie di voluttá a ruminare pensieri di morte e ci compiacciamo a circondare il nostro letto di tutte le immagini piú care al nostro cuore; la buona Nannina avea due cose care, un fiore e la mamma, i primi amori delle fanciulle: beate se anche donne conservino viva nel cuore questa doppia poesia, guardia della loro virtú! I fiori, la mamma e la morte, ecco le immagini che fluttuavano innanzi alla giovinetta, gittando giú sulla carta questi versi:
O cara mammola,
Fiore gentile.
Che t’apri all’aura
Mite d’aprile;
Perché si timida
Stai fra l’erbetta
O soavissima
Mia mammoletta?
Forse non meriti
Fra gli altri fiori
Dall’alme ingenue
I primi onori?
Stellato e candido
È il gelsomino.
Ma è fior sazievole,
È fior meschino.
Il doppio calice
Apre la rosa.
Ma punge e levasi
Troppo orgogliosa.
È la camelia
Leggiadro fiore,
Ma non confortaci
D’alcun odore.
Mentre tu, o mammola,
Anche nascosta,
Consoli subito
Chi ti si accosta.
Somigli, o mammola.
La mamma mia,
Modesta e semplice
Ma buona e pia.
O mamma, o mammola.
Ambe a me care,
Infino all’ultimo
Vi voglio amare.
Oh infino all’ultimo
Avervi io possa!
E spuntin mammole
Sulla mia fossa.
È una poesia semplice, come la sua anima: un solo pensiero ed una sola melodia. La viola che vale piú degli altri fiori, se ne sta timida e nascosta fra l’erbetta. Indi la giovinetta riunisce in una sola immagine i due suoi amori, l’amor del fiore e l’amor della mamma; poi d’improvviso, come un guizzo di lampo, ti fa balenare dinanzi i suoi scuri presentimenti. A tanta semplicitá di concetto corrisponde pari semplicitá di melodia: senti come le fuggevoli variazioni di un medesimo suono. È una melodia gentile e delicata, come quel fiore, con movenza rapida, volubile, ma piena di soavitá e di grazia.
E scendendo a’ particolari, osservo, innanzi tutto, che questa poesia è affatto monda di tutti quei difetti che si contraggono nelle cattive scuole. Niente di artificiato o di rettorico; niuna ricercatezza nelle immagini e nel linguaggio, niuna affettazione di sentimento, e neppure concettini, vezzi, smancerie. Anzi, se difetto ci è, è il contrario. Ci è troppo abbandono; quei piccoli versetti scorrono gli uni sugli altri con facilitá, come onda su onda, senza che di alcuna rimanga vestigio. La facilitá del metro e della rima seduce la giovinetta e la fa correr veloce innanzi, si che i pensieri e le immagini non sono abbastanza accarezzate e non escono dal comune. Vi è una semplicitá negletta, senza quell’ultimo e quel fisso che eterna la forma. Il che voglio sia detto particolarmente di quella rassegna che fa de’ fiori, dove trovi reminiscenze anzi che vivaci e immediate impressioni; quindi quegli epiteti e quei verbi senza colore, senza proprietá, come «sazievole», «meschino», «leggiadro», «consoli», ecc. La giovinetta, in luogo di tener fissa la mente in quella viola e dipingere i sentimenti e le impressioni che ne riceve, si gitta in una specie di argomentazione, ponendola a raffronto con altri fiori: il che ha aria di discorso, raffredda l’interesse e distoglie l’attenzione. Qui è la parte debole di questa poesia, cosí bella nelle prime e nelle ultime strofe. Vedete la prima strofa: — O viola, perché te ne stai si timida fra l’erbetta? — . Ecco il nudo pensiero. Ma Nannina vuol dire un’altra cosa ancora; vuol dire quanto quel fiore le è caro, con che amore lo contempla. E non sa ripiegarsi in se stessa, non sa analizzare i suoi sentimenti. É fanciulla, vi si sente quella non so quale ingenuitá che ci è si cara in Omero e che alcuna volta vi ho mostrato in Dante. Siccome in primavera spira amore da tutte le cose viventi senza che voi possiate coglierlo al di fuori in una forma distinta, cosí da questi primi versi spira un dolcissimo affetto senza che la parola lo dica. Voi lo sentite nella movenza del verso nella soavitá de’ suoni, e, soprattutto, nel grazioso ritornello della fine. La fanciulla non si contenta di chiamare solo una volta il suo fiore:
O cara mammola, Fiore gentile: |
ma ripete quel nome, ci è cosí caro il nome delle persone che amiamo, ripete quel nome, e lo fa ancora piú bello, piú amabile, dandogli la forma carezzevole del diminutivo:
O soavissima Mia mammoletta. |
Qui sta l’incanto di questa poesia; il sentimento rimane implicato nella immagine, o se talora se ne stacca, prende una forma semplice, immediata, fanciullesca:
O mamma, o mammola, Ambe a me care, Infi.no all’ultimo Vi voglio amare. |
Gli uomini hanno inventato molte e molte belle frasi per esprimere l’affetto; e niuna avanza di efficacia, di evidenza, di veritá, questo «vi voglio amare», che esce dal cuore di una fanciulla. «Infino all’ultimo!». La povera Nannina quest’«ultimo» se lo sente avvicinare, e «infino all’ultimo» ripete malinconicamente, con imo di quei naturali, veri passaggi, che non si scoprono, ma ti vengono innanzi, quando si parla col cuore. Pensando alla morte, sentiamo il bisogno di sopravvivere a noi stessi, e pensiamo quello che si dirá di noi, e che i nostri cari non ci dimenticheranno, e che alcun pietoso verrá pure talvolta a porre un fiore sulla nostra fossa. Queste immagini allontanano dalla morte ciò che vi è di cupo e di amaro, e l’accompagnano con un non so che di tenero, che elice dagli occhi dolci lagrime. Tali sono le immagini che assediano la fanciulla, mentre, correndo col pensiero a quell’«ultimo», le fuggono dalla penna questi quattro versi inarrivabili:
Oh sino all’ultimo Avervi io possa!... E spuntin mammole Sulla mia fossa. |
Sono versi che dicono poco, ma dove s’affaccia tutta una serie d’immagini e di sentimenti, come tutta l’anima s’affaccia talora in uno sguardo. La fanciulla era trista, e si nutria della sua tristezza. Ché cosí siamo fatti: — Non ci devi pensare, — ci dicono e ci diciamo, e quel pensiero con tanto piú d’ostinazione si affaccia. Ci compiacciamo a roderci, a struggerci noi stessi. — Perché sei si trista, Nannina?, le diceva il maestro, non bisogna pensare a quelle cose. — Perdonatemi, rispondeva la fanciulla, sono trista. — E pensava. Pensava al suo ultimo giorno, al letto di morte, al cimitero, alla fossa. I due ultimi versi sopraggiungono inaspettati, e sono una vera rivelazione, un lampo che illumina tutta quell’anima: ne scappan fuori tutti questi scuri pensieri. Ma al di sopra di questa insanabile tristezza spira non so che di gentile, che la raddolcisce, la purifica, trasformandola in una cara malinconia: la malinconia è la poesia della tristezza. Quando siamo tristi, siamo affettuosi, sentiamo tanto bisogno di amare e di essere amati. L’occhio cerca un altro occhio, cerca una mano cui stringere; un sorriso, uno sguardo carezzevole ci intenerisce, ci sta lungamente innanzi. Un’anima orba di affetti può esser trista, ma non malinconica; ed è brutta, fa spavento a guardarla. O Nannina, ma come tu amavi! come sapevi amare tu! La mamma ed il fiore si mescolano alle tue immagini funebri e temperano di alcuna dolcezza il tuo affanno. È l’affetto che ti è stato maestro di poesia, ed ha comunicato al tuo dire tanta soavitá, tanta amabile delicatezza. Addio, buona, addio, gentile Nannina. Piú d’una lacrima hai fatto spargere. Poco poi morivi; ma la tua anima vive in questi versi, ’vive nel nostro cuore. Vi raccomando la sua memoria, o giovani, ché infino a che voi sarete buoni a comprendere Nannina Amata, farete fede che siete ancora virtuosi, che pregiate ancora ciò che è buono e santo.