La mia vita, ricordi autobiografici/V
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V.
Montemurlo.
Nei miei ricordi giovanili, tra la tristezza della casa di via delle Ruote e le frequenti melanconiche gite a Prato dagli zii, sorride, fresca e verdeggiante oasi, la visione di Montemurlo. E io ho voluto intitolare con questo nome il presente capitoletto, perchè Montemurlo ha esercitato una grande influenza su tutta la mia vita e forse sull’arte mia.
Su quel poggio ridente, nella spaziosa canonica che la generosa antica ospitalità del pievano Gaetano Giunti mutava in una reggia, la mia piccola anima cominciò a entrare in una diretta comunione con le grandi bellezze della natura. E la vicinanza immediata della chiesa, il continuo svolgersi sotto i miei occhi, di tutte le più poetiche funzioni religiose — dalla prima messa quotidiana susurrata all’alba nella penombra della chiesa socchiusa, tutta odorosa di fiori e d’incenso, fino ai trionfali vespri domenicali — e fors’anco la piccola, scelta biblioteca del Pievano, contribuirono certo a sviluppare e ad allargare nel mio spirito quel sentimento del bello e quella misteriosa tendenza al misticismo che si verifica nella maggior parte dell’opera mia.
Di tutta la gente che mi circondava una sola persona mi capiva e seguiva amorosamente lo svolgersi della mie facoltà intellettuali: il Pievano. E infatti, alla mamma, (quantunque intelligentissima, era incolta) alla sorella, agli amici che si trovavano lassù a villeggiare, tutta buona gente che non vedeva molto più in là del proprio naso, che effetto doveva produrre quella strana bambina che passava ore e ore, silenziosa, ora a contemplare la vetta di Monteferrato (ove, mi avevan detto, un bambino era morto di fame e di freddo) ora il castello turrito da cui un gran fiorentino, Filippo Strozzi, s’era disperatamente difeso contro dei nemici di cui ignoravo il numero, il nome, le intenzioni, ma che dovevano essere terribili e spaventosi: quando la bianca villa del «Barone» piena di leggende paurose, quando, finalmente, il largo, scortecciato, campanile della parrocchia, da cui si sprigionavano per diffondersi nella valle i suoni ora giocondi ed ora mesti in cui si compendiano tutte le fasi della vita umana: battesimi, nozze e funerali?
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Egli, il buono e colto ospite, intendeva la fanciullina strana: e, spesso, conducendola seco su per le viuzze odorose del poggio o sedendo con lei sotto il pergolato del meraviglioso giardinetto da cui si domina Prato e Firenze avvolti quasi sempre in un tenue trasparente velo di nebbia, le narrava cose indimenticabili.
Le raccontava, per esempio, che nella Rôcca una povera e buona signora era tenuta quasi prigioniera dal marito autoritario e dispotico; che in una delle più antiche e tetre camere del «Barone» c’era un trabocchetto in cui era stato calato alcuni secoli or sono, un traditore della patria, chiamato Troilo...
— Quando sarai più grandina — mi diceva — tu leggerai questo fatto in un bel romanzo italiano intitolato Niccolò de’ Lapi.
— E cotesto romanzo — domandavo io, con gli occhi già lustri dal desiderio — chi lo ha scritto?
— Un certo Massimo d’Azeglio: un grand’uomo...
— Lei lo ha conosciuto?
— È venuto qui, in questa casa, e ha mangiato proprio sotto questo pergolato dove stiamo noi ora
— E che ci venne a fare?
— Siccome alcuni fatti importanti di quel libro si svolsero qui...
— Davvero?
— Davvero! Così, Massimo d’Azeglio volle, prima di descrivere i luoghi, vederli coi suoi proprii occhi. Mi capisci?
— Sì.
— E sai che cosa offrii per colazione a Massimo d’Azeglio? Una frittata con gli zòccoli. — Con gli zòccoli? — esclamò il grande scrittore spaventato, credendo che si trattasse delle calzature portate dalle serve o dai contadini. — Mi fa celia! Io non potrò mai digerirla! — E quando gli dissi che gli zòccoli non erano altro che grossi pezzi di prosciutto si rasserenò tutto.....
Non è a dire quante volte io facessi ripetere al buon prete quest’aneddoto che mi pareva improntato alla più irresistibile comicità: e a ogni ripetizione erano bàttiti di mani e scoppi di riso inestinguibili!
— Quel povero signore costretto a mangiar gli zoccoli...!!
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E così, piano piano, con un lento lavorìo d’assimilazione sussidiato dall’opera potente della fantasia, si profilavano, per poi disegnarsi spiccatamente nel mio pensiero, figure di donne infelici, chiuse in ferree prigioni, ville misteriose popolate di spettri, chiesine poetiche piene di frescura e di profumi, scrittori e poeti vaganti per le pittoresche terre d’Italia in cerca d’ispirazioni pei loro meravigliosi racconti!
E così, a sei anni, io possedevo già in me, certo molto incoscientemente, i materiali di molti fra i miei futuri libri.
In quasi tutti c’è qualche buona e alta figura di sacerdote cristiano, un angolo fiorito di Montemurlo, un alito di quella fresca poesia campestre che deliziò i miei primissimi anni giovanili.
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A Montemurlo conobbi la Stella Pacetti, una buona e semplice figura femminile su cui dovrò tornare nel corso di queste pagine. Anch’essa, come artisticamente presentata da Don Gaetano! E in qual delizioso sfondo di luce e di verde, intraveduta la prima volta!
E anche la Stella, la povera Stella, buona e semplice maestra rurale, dormente l’ultimo sonno nel piccolo cimitero di Montemurlo, sotto quante spoglie rivive nelle mie prose migliori!
A me bastava, fin da piccina, un fiorellino qualsiasi, un antico muraglione corroso dal tempo, un trillo di rondini, un effetto di luce, un pallido volto di donna, un bambino piangente per ricamarvi sopra le fantasie più originali e complesse.
E m’innamoravo tanto dei luoghi e dei personaggi da me creati, che finivo col respirare e col vivere la loro vita: tanto che io, con la maggior serenità del mondo, esplodevo le più grosse bugie che sieno mai uscite da una fresca boccuccia di sei anni.
Tornavo alla canonica dopo certe mie brevi e solitarie escursioncelle, raccontando di avere incontrato, quando una signora pallida e mesta che piangeva dirottamente, oppure un’ombra di guerriero che m’accennava con la mano scarna il turrito castello di Filippo Strozzi oppure un signore vestito alla moderna, magro, dai baffi a punta che m’aveva detto di chiamarsi «Massimo d’Azeglio» e d’aver bisogno di parlar di nuovo al Pievano!
Inutile dire che queste mie trovate venivano punite acerbamente dai miei e scusate, (oh come! e con che illuminata bontà!) dal Pievano che mi regalava di nascosto biscottini e confetti. E qui, non è forse inutile il raccomandare alle madri e agli educatori di non voler punire tutte, indistintamente, le bugie dei fanciulli: alcune, come quelle accennate ora, non sono altro che le manifestazioni d’una fantasia esuberante, bisognosa in qualche modo, di espandersi: si tratta di vere e proprie bugie artistiche che, più tardi, serviranno al bambino immaginoso per mettere insieme il famoso componimento: e che verranno premiate con un dieci; e, a fin d’anno, con la medaglia d’argento.
E — sotto questo rapporto e rimanendo in questo ordine d’idee — non vedo alcuna differenza tra una bugia parlata e una scritta!