La mia vita, ricordi autobiografici/VI

Capitolo VI. La famiglia Borrani

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V VII
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VI.

La famiglia Borrani.

(1855).

Nella casa di via delle Ruote, nel piano sotto al nostro abitava una cara famiglia a cui mi legano imperituri ricordi di tenerezza e di gratitudine: la famiglia Borrani, nome non nuovo nè inglorioso per la storia dell’arte perchè ad essa appunto appartiene il fiorentino pittore vivente Odoardo Borrani, a cui, forse, avrebbero arriso più lieti i destini s’ei fosse stato più ossequente alle leggi dell’opportunismo e più avesse incurvato la schiena davanti alla critica presuntuosa, vacua e ciarliera del giornalismo italiano. Ma il Borrani anche da giovanetto, era sempre un po’ orso: e non è quindi da far le meraviglie se anche oggi il nome di qualche sciatto imbrattatore di tele è più noto in Italia di questo artista dalla maniera sciolta, ma castigata, dal disegno puro, corretto, oserei dire impeccabile.

Mia madre fece presto amicizia con la signora Polda, madre di Odoardo, che in quell’epoca (1855-57) studiava pittura all’Accademia di Belle Arti.

Come debbo a Montemurlo il sentimento della natura, io debbo a questo egregio uomo il sentimento dell’arte.

Ricordo un po’ vagamente, ma ricordo. In un estivo pomeriggio domenicale, Odoardo Borrani salì da noi per salutar la mamma e forse, credo, per fare un dito [p. 37 modifica] corte a una nostra cugina di Prato, bellissima ragazza, il cui ritratto a olio, opera del giovane artista, si trova ancora nella casa di lei, maritata da molti anni a Giuseppe Dini.

Io ero in gonnellina bianca con una vita sbracciata e scollata.

Accenno questo particolare perchè il Borrani cacciò un grido di ammirazione alla vista delle mie piccole braccia tonde, bianche, d’un disegno purissimo.

— Cara signora, — disse alla mamma — bisogna che ella mi presti l’Ida per qualche settimana. Sto disegnando un quadro dove c’è un angelo dalle braccia ignude: e questa creaturina è un modello squisito...

Mia madre acconsentì tutta orgogliosa e io scappai in camera con una scusa per andare a guardarmi di nascosto le piccole braccia tonde e bianche su cui — debbo confessarlo? — appoggiai le labbra quasi con rispetto.

La mattina dopo andai allo studio a posare: e non so ridire il mio entusiasmo alla vista dei molti quadri rappresentanti scene campestri, interni di chiese, pittoresche strade di città e di montagna, effetti di luce, tramonti, albe, ritratti, ecc.

Povero Borrani! Sotto qual diluvio d’interrogazioni strane, ingenue, puerili, profonde, egli dovè piegare il giovane capo intelligente!

Per dipingere quegli alberi e quei fiori e quei prati e lo sfondo di quei monti, bisognava dunque averli guardati molto? E i colori dove si trovavano? Come si faceva a chiederli? Bisogna forse dire ai negozianti: — Mi dia delle tinte per fare il cielo, il mare e i visi dei bambini belli? E per dipinger così bene le chiese e [p. 38 modifica]per far discender la luce sugli altari da quei finestroni così in alto, bisognava senza dubbio passar molte ore nelle chiese e raccomandarsi a Dio?

Lo studio di Odoardo Borrani mi fu per così dire l’anticamera dei veri templi dell’arte: perchè io non detti più pace nè a lui, nè ad Andrea Salomoni, nè ad altri amici di casa, finchè non mi conducevano alle gallerie e ai musei. E che grido di ammirazione alla vista di tante meraviglie! E che mute estasi, e che selvaggie taciturnità, e che lunghi raccoglimenti! Io, a quell’età, non potevo certo capir l’arte, nè apprezzarne gl’intendimenti, nè interrogarne il tecnicismo! Ma la sentivo: ma la mia era tutta una festa degli occhi e del cuore!

Una volta alla vista di un celebre quadro rappresentante San Girolamo moribondo, nell’atto di ricevere la comunione, detti in un dirotto pianto e cominciai a buttar baci disperati al santo vecchino i cui sguardi mi avevano ricercato le più intime fibre dell’anima!

Un pittore, uno scultore, un romanziere mi sembravano persone al disopra dell’umanità: e, piccina così, provai delle passioni intense e gelose per il Borrani, l’Ussi, e per il povero Gabriele Castagnola, altro nobile e delicato temperamento d’artista a cui, davvero, non furono propizi nè gli uomini nè il destino...

La signora Polda! Che onda di tenerezza mi assale al ricordo della cara vecchiarella che fu per me una seconda madre, una specie di nonna amorosa a cui nulla riesciva più dolce di ricoprire o scusare le marachelle della nipotina! [p. 39 modifica]

Siccome ogni mattina ella si recava alla vicina chiesa di San Giovannino de’ Cavalieri per ascoltarvi la messa, così si era offerta di condurmi essa stessa a scuola.

La mia sorella e la mamma le raccomandavano spesso di raccontare alle maestre le mie cattiverie e di esortarle a mettermi in penitenza: oppure le proibivano di comprarmi il companatico della merenda. La sora Polda prometteva tutto, ma appena eravamo fuori si faceva raccontare le mie birichinate, ci rideva di cuore, mi prometteva di non dir nulla alle maestre e mi metteva nel pianerino quando una crazia di salame, o le bruciate o un grappolo d’uva o un cartoccino pieno di farina dolce, tutte cose di cui ero ghiottissima.

— Mi raccomando, non tradirmi! — mi diceva prima di lasciarmi.

E io, seria seria:

— Stia tranquilla!

E non l’ho tradita mai, neppure quando la mamma messa alla disperazione dalla mia irrequietezza, diceva al babbo o ad altri di casa, puntando l’indice verso di me:

— La cattiva! Nessuno le vuol bene! Neppure la signora Polda!



Io non so dove riposano i tuoi poveri resti, cara amica dei miei anni infantili: perciò nè rose ho potuto portarti mai, nè altri tributi d’affetto: possa quindi questo ricordo allietare d’un sorriso umano (sorridono le buone anime in cielo?) l’alta serenità del tuo spirito immortale.