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mie facoltà intellettuali: il Pievano. E infatti, alla mamma, (quantunque intelligentissima, era incolta) alla sorella, agli amici che si trovavano lassù a villeggiare, tutta buona gente che non vedeva molto più in là del proprio naso, che effetto doveva produrre quella strana bambina che passava ore e ore, silenziosa, ora a contemplare la vetta di Monteferrato (ove, mi avevan detto, un bambino era morto di fame e di freddo) ora il castello turrito da cui un gran fiorentino, Filippo Strozzi, s’era disperatamente difeso contro dei nemici di cui ignoravo il numero, il nome, le intenzioni, ma che dovevano essere terribili e spaventosi: quando la bianca villa del «Barone» piena di leggende paurose, quando, finalmente, il largo, scortecciato, campanile della parrocchia, da cui si sprigionavano per diffondersi nella valle i suoni ora giocondi ed ora mesti in cui si compendiano tutte le fasi della vita umana: battesimi, nozze e funerali?

Egli, il buono e colto ospite, intendeva la fanciullina strana: e, spesso, conducendola seco su per le viuzze odorose del poggio o sedendo con lei sotto il pergolato del meraviglioso giardinetto da cui si domina Prato e Firenze avvolti quasi sempre in un tenue trasparente velo di nebbia, le narrava cose indimenticabili.

Le raccontava, per esempio, che nella Rôcca una povera e buona signora era tenuta quasi prigioniera dal marito autoritario e dispotico; che in una delle più antiche e tetre camere del «Barone» c’era un traboc-