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un bambino piangente per ricamarvi sopra le fantasie più originali e complesse.

E m’innamoravo tanto dei luoghi e dei personaggi da me creati, che finivo col respirare e col vivere la loro vita: tanto che io, con la maggior serenità del mondo, esplodevo le più grosse bugie che sieno mai uscite da una fresca boccuccia di sei anni.

Tornavo alla canonica dopo certe mie brevi e solitarie escursioncelle, raccontando di avere incontrato, quando una signora pallida e mesta che piangeva dirottamente, oppure un’ombra di guerriero che m’accennava con la mano scarna il turrito castello di Filippo Strozzi oppure un signore vestito alla moderna, magro, dai baffi a punta che m’aveva detto di chiamarsi «Massimo d’Azeglio» e d’aver bisogno di parlar di nuovo al Pievano!

Inutile dire che queste mie trovate venivano punite acerbamente dai miei e scusate, (oh come! e con che illuminata bontà!) dal Pievano che mi regalava di nascosto biscottini e confetti. E qui, non è forse inutile il raccomandare alle madri e agli educatori di non voler punire tutte, indistintamente, le bugie dei fanciulli: alcune, come quelle accennate ora, non sono altro che le manifestazioni d’una fantasia esuberante, bisognosa in qualche modo, di espandersi: si tratta di vere e proprie bugie artistiche che, più tardi, serviranno al bambino immaginoso per mettere insieme il famoso componimento: e che verranno premiate con un dieci; e, a fin d’anno, con la medaglia d’argento.

E — sotto questo rapporto e rimanendo in questo ordine d’idee — non vedo alcuna differenza tra una bugia parlata e una scritta!