XIX. La fine e il principio del Nirvana

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XIX. La fine e il principio del Nirvana
XVIII

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XIX.

La fine e il principio del nirvana.


Il nirvana anche per il porcello della vecchia bacucca, sta per finire.

A Savignano lavorano già, il sabato sera, la carne porcina, e s’ode questa romanella che muore lenta pei campi:

Da lontano l’abbiamo saputo
Che il baghino1 l’avete ammazzato!...

È una notizia piacevole per tutti, eccezione fatta del porcello; e così mi è stato piacevole sabato sera tornar da Savignano con una bella provvista dì braciuole, e di salsicce. La rigidezza oramai della chiara sera rende gustoso il nuovo cibo.

Le braciuole e le salsicce rosolano su la graticola e mandano un grato profumo: quasi quasi lo stender la mano su la brace non è discaro. La nonna gira la piada sul testo; e i bambini le stanno attorno.

Le ragazzette hanno scovato sui greppi i primi cespi delle insalatine che nascono di settembre: ben risciacquati alla fonte, hanno [p. 265 modifica]sapore di fresca terra e una grata e tenera amarezza: ben si confanno alla opima carne, e ben tempera quella freschezza della insalata il grasso arrostito delle succose e fumanti braciuole. E proprio in quel sabato sera il prete mi mandò in dono un gran fiasco di vino nuovo, un assaggio primaticcio delle sue viti. «Questo vino, quando sarà fatto, è tutto da bottiglia!»: ben mi rammento queste parole del prete in lode di quel suo particolare vino. Non si parla dei santi con tanta venerazione! Ma così nuovo com’era, quel vino aveva un asprino dolce e frizzante e seguitava a bollire pur dopo bevuto.

C’è a chi non piace il vino nuovo, a me piace moltissimo....

«Gli è che siete un bel ghiottone!...» dirà alcuno.

«Per Dio, è verissimo. Una mangiata come quella di sabato sera è pur una bella soddisfazione, e poi dormire dieci ore e poi destarsi sbadigliando al chiaro sole, e recitare dolci versi d’amore».

«Ah, porco!» sento che mi grugnisce il porcello.

«Sì, caro, è meglio che ci confessiamo schiettamente in questi estremi giorni della nostra convivenza assieme: siamo tutti fratelli. Ciò consoli il tuo prossimo fato».

[p. 266 modifica]Io non ho avuto mai compassione per l’ingordo porcello della vecchia bacucca; ma quella notte mi si strinse il cuore di grande pietà.

Si veniva, sotto un filo di luna, da un onesto sollazzo: v’erano bambini e giovanette: tornavamo ridendo e conversando, e il suono delle voci saliva alto per la notte chiara. Ed ecco per la strada incontrammo una fila ferma di alcuni carretti, tirati da asinelli. Sui carretti c’era una gabbia, fatta di grossi bastoncelli, quale usano per portare i vitelli al mercato: in ogni gabbia, adagiato su la paglia, un porcello.

I conduttori aspettavano che altri carretti si aggiungessero per andar di conserva alla città lontana.

La luna era fredda e tenue; i grandi corpi, impotenti di sollevarsi, rabbrividivano dì freddo e di terrore.

Le donne e i bambini risero allo strano convoglio.

Ma non risero più quando giungemmo alla mia casetta. Gran tumulto era nell’aia. Un asinelio e il carretto erano profilati davanti al porcile. Che rugghi mandava la povera bestia che non si voleva staccare dal suo tepido porcile! E quattro uomini ci vollero a forza per caricarlo su la gabbia, e la vecchia [p. 267 modifica]bacucca lo allettava davanti facendo giumella con le mani colme di farina: — To’ to’!

Ma esso, fra i rugghi, guardava con i piccoli stupefatti fori delle pupille la vecchia, e pareva dire: «Anche tu!»

Crede il popolo che la struttura anatomica del porco molto s’accosti a quella dell’uomo; ma anche il suo lamento in quella notte mi parve umano.

Come infine fu adagiato con violenza nella gabbia, si acquetò un poco.

Il momento della partenza era venuto. La vecchia, asciugandosi gli occhi con le cocche del fazzoletto da testa, toccò per l’ultima volta l’orecchio del suo porcello venduto, e: «Andate là!» disse commiserando; poi fra sè come una meditazione: «Aveva più giudizio di un cristiano»; e s’avviò alla sua capanna per non più vedere.

Io sentii allora dal profondo corpo della belva impotente venir fuori un oimè! degno del tragico cerchio di Beltramo del Bornio.

— Va là! — disse allora l’uomo.

E l’asinello si tese e mosse. (Vittime entrambe predestinate, unite in vita e non disgiunte in morte, entro una mortadella o un zampetto di Modena).

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*


Anche per me il nirvana sotto il sole, è finito: la sera diventa buia; la sera è fredda: io sento non so quale voce di lamento, parlato dalle cose. Il sole del mattino è fosco: non ha più forza di sciogliere le brine. Io domando con la stupidità di un bambino al vecchio paron Jusèf, il filosofo che scruta il cielo e il mare, se avremo ancora bei giorni, come prima, giorni caldi, senza vento. Il vecchio pur vorrebbe darmi risposta quale io desidero; mi guarda a lungo, e fra le crespe del volto si forma un sorriso, del quale questo è il senso: «O voi vi beffate di un povero vecchio, oppure è cosa incomprensibile che un uomo di studio faccia le domande che può fare un bambino. La domanda che voi mi fate equivale a quest’altra: Tornerò ancora giovane? Sì, quando vostra madre vi partorirà un’altra volta». Quindi a chiara voce mi dice: — È facile invece che abbiamo qualche settimana di pioggia. C’è il caligo alla mattina, e il caligo non sbaglia.

Sì, il caligo è grande! Chi non lo avverte è il marinaio, mio padrone di casa. Egli pianamente, quasi piamente, dissoda un suo orticello in cui l’anno scorso piantò le patate e [p. 269 modifica]quest’anno seminerà il grano: anche la vecchia scrignuta non l’avverte il caligo: essa leva il taso ai vecchi fusti che accoglieranno il vino nuovo e il vinello. Dice bene il Pascoli:

Al cader delle foglie alla massaia
non trema il vecchio cor, come a noi grami
chè d’arguti galletti ha piene l’aia.

Certo sarebbe meglio non sentire l’inverno che per il fatto che si sta bene accanto al focolare: la mente, in tale caso, non va oltre alla piada di formentone, girata con moto lento sul testo, e la lucernetta, appesa al rustico camino, rischiara come una lampada elettrica.

Ciò è anche poetico: ma bisognerebbe però essere abituati al formentone ed alle erbe amare; e poichè questo non si può e non si vuole, così torniamo a rivedere le lampade elettriche della grande città; leviamo dal pepe il   p a l a m i d o n e;   e cerchiamo di comporre sopra il colletto un volto mansueto.

Il mulino delle molte parole comincia ad avviarsi: ecco già aperte le scuole; e i miei scolaretti di prima ginnasio hanno comperato con entusiasmo il loro grosso dizionario latino.

Però come precipita presto la stagione verso l’inverno: con la stessa rapidità con cui la vita, varcato il mezzo, corre alla sua fine.

E lui come è precipitato presto! Un mio [p. 270 modifica]collega, un buon compagno, senza pretese, un po’ strafottente, che aveva la debolezza — appena la confidenza glielo permetteva — di far dell’arguzia ultra-boccaccesca. Povero uomo, non le diceva mica male; ma con quella sua faccia gialla infossata, mi faceva un certo effetto, non da ridere; e fumava le sigarette scaraventando buffi di fumo come per dissipare delle imagini di morte che gli svolazzavano attorno, noiose più che le mosche.

Aveva fatto la cura di Montecatini; però avrebbe fatto meglio a far la cura di lasciar la scuola. Dio, come è resistente il fegato degli uomini!

Io ho saputo che c’era all’ordine del giorno il suo funerale, prima ancora di sapere che era ammalato.

Come era alta la neve quel giorno del suo funerale! Che percorso lungo fino al cimitero!

Avevo in mente le sue facezie di pochi giorni prima; e mi pareva impossibile che dovesse trovarsi muto fra quelle quattro assiciuole nere. Oh, egli parlava ancora, l’allegro compagno, almeno mi pareva che dovesse dire così:

Io sono veramente mortificato, o signori: io giaccio disteso e voi state in piedi; io sto al coperto, e voi sotto la neve e non vi posso nè meno dire: «Accomodatevi!» non posso farvi gli onori di casa. Scusatemi dunque: già, [p. 271 modifica]uno per volta vi troverete tutti in questa mia privilegiata condizione.

Ma quello che più di tutto mortifica la mia delicatezza è che dalla mia (oh, guardate che cosa è mai l’abitudine! volevo dire abitazione) dalla mia ex-abitazione al Cimitero Monumentale (sapeste come è pesante questa parola) sono circa tre chilometri: a cui aggiungiamo altri tre pel ritorno vostro, non mio, ed è una bella passeggiata. E nevica ancora! Lo so; è un giorno di vacanza oggi; ma con questa neve (guardate, arriva sino alle sale del carro!) io credo che anche gli scolari avrebbero preferito di scaldare i banchi della scuola. Io — ripeto — ne sono mortificato, ma credetemi, non l’ho fatto apposta! Cari scolaretti tutti in fila, ecco, voi mi levate il cappello con riverenza, ecco la vostra bella bandiera, ecco l’onesto bidello che vi sorveglia e ripete con la sua voce dialettalmente chioccia: «In ordine!» e la neve gli imbianca i barbigi. «Non mi farete arrabbiare più, è vero, cari piccini?» «No, signor Professore!» Oh, questa volta vi credo sulla parola. Ma guardate! Anche le corone voi mi recate e col prezzo dei fiori freschi a questi giorni, ciò è molto commovente! E non potervi dire: «grazie!»

Sì, io sono mortificato. Ma ecco tutti i miei buoni colleghi che sbucano da varie strade. [p. 272 modifica]Arrivano trafelati, coperti di neve. Stringono la mano al signor Direttore che sta dietro il carro, condolendosi della mia morte. Il signor Direttore dice a tutti: Mah! e non dice altro.

Già Mah! è proprio così. Mah! Tutta la filosofia della vita e della morte — a ben pensarci — si riduce ad un Mah! con un’enorme «h» in fine. Oh, vedete, anche dei colleghi di altre scuole, persino del Liceo: anche il signor professore di filosofia, quel dotto germanico che sospende oggi i suoi studi per farmi onore! Ma vedi! Ecco anche le Autorità scolastiche! e il mio posto di ruolo è così umile!

Finalmente ci moviamo, ma per fare una tappa in chiesa. Chi ha stabilito così? Già che eravamo avviati si poteva proseguire.

Per fortuna si tratta di una semplice benedizione; però come rombano freddolose e frettolose quelle benedizioni dei preti, come bruciano svogliati quei ceri! Quella litania dei santi: «sancte Michaël, sancte Gabriel, sancte Raphaël,» ecc., e quell’«ora pro eo» detto automaticamente come fosse una sola parola, «oraproeo», spiace anche a me che sono il beneficiato. Figurarsi agli altri! Finalmente il sacrestano vien fuori e buffa sui ceri. Siamo avviati. Avviati? Eh sì! È vero che io godo il diritto di preminenza nel passaggio, ma con [p. 273 modifica]questa strada! Il carro entra nei cumoli della neve e si rischia di fare altre tappe. Per fortuna, no: la neve è dolce, soffice. Speriamo di non essere ribaltati!

A Perlino mettono il sale! — insegna il signor professore di filosofia. «Da noi no, caro collega!» — A Perlino mettono il sale su le rotaie dei tram per sciogliere la neve e fare correre i medesimi. — «Da noi non ancora». Del resto il compianto è universale. «Morire con ventitrè anni di servizio quando ci vogliono al minimo ventiquattro anni di servizio, sei mesi e un giorno per aver diritto alla pensione!». Eh, lo so! è doloroso! Il problema della vita per noi, cari colleghi, è ridotto a questi termini: si muore bene quando sono compiuti i ventiquattro anni, sei mesi e un giorno. Io ho sbagliato di un anno. «Che c’aggio a fa?» Sono andato a Montecatini per questo. Del resto, io che sono il più direttamente interessato, accetto il mio destino senza discussione.

Ecco attraversiamo il parco. L’effetto del parco sotto la neve è splendido; ne convengo con voi. Ecco il recinto per l’Esposizione prossima. Che tumulto di vita sarà qui in questo parco fra sei mesi. Ma oggi pare fatto a posta per il passaggio dei morti. Osservate, colleghi, altri tre convogli neri si profilano nel [p. 274 modifica]bianco della neve! Guardatevi però dal pigliare un’infreddatura. Con l’influenza che c’è in giro, non si sa mai!

A Perlino....

Sì, a Berlino mettono il sale in su la neve e il finocchio sul pane, questo lo so. Quello che non sapevo è che questa neve è una provvidenza, benchè, individualmente, la cosa mi interessi così e così. «L’impianto idroelettrico di Vizzola già si risentiva della magra del Ticino; e mancava ormai l’acqua anche a quello di Paderno. Cosa grave!» «Sì, questo va bene, ma non si tiene conto della spesa che dovrà sostenere il Municipio di Milano a spazzare tutta questa neve». «Ma sono confronti da farsi?» «Avete un’idea del danno che avrebbe recato la sospensione della distribuzione dell’energia elettrica, proprio nell’anno dell’Esposizione? Il conto è presto fatto». Il collega che così parla si affretta a fare il conto; un altro collega, un piccioletto amico, che ha sempre il metro in tasca, estrae il suo arnese, fa un ardito salto di fianco fino a scomparire (è buffo!) nella neve e ne misura l’altezza. Esclama: «Centimetri cinquantacinque!» «Se qui sono centimetri cinquantacinque — riprende il professore di prima — noi possiamo calcolare il quadruplo su le Alpi; quattro metri e venti centimetri». L’avvenire delle motrici [p. 275 modifica]è assicurato, secondo lui; ma secondo l’assistente la cosa non è così chiara: occorrono altre nevicate. La disputa s’accende: ma in verità, cari colleghi, non si potrebbe parlare più piano? Oggi che alfine tacciono gli scolari, parlano forte i professori. Signor direttore mi raccomando a lei; lei che dice sempre: «Silenzio!» To’, to’! il collega in poesia insorge lui invece del direttore: i suoi piccoli occhi, accecati dalla neve, li gira fuori del bavero della pelliccia, dentro cui scompare rabbrividendo e.... vorrebbe rimproverare i dotti colleghi. Inutile! lasciali parlare! Borbotta fra sè: «Quando morirò, non voglio nessuno dietro. Lo voglio lasciare per testamento». Ma via, caro poeta, non volgiamo le cose al tragico! «Meglio essere rimasti lassù (il collega in poesia è di un paesello di Toscana fra i monti); meglio esser rimasti lassù (il collega i cavoli!» «Oh, questo sì, questo sì, caro poeta, anche a costo di restare senza discorso commemorativo.

Il discorso al Cimitero Monumentale l’ha tenuto il mio assistente, quello piccolo dal metro. Mi sono sentito ripetere gli anni di servizio, il luogo dove ho compiuto gli studi e ho sentito lodare anche un mio opuscolo di cui non ricordavo più l’esistenza.

Il signor Direttore mi ha commemorato [p. 276 modifica]anche lui con parole di rimpianto e di elogio, fra le quali ha detto che io sono sempre stato un «modesto e valoroso» insegnante.

Dopo, voleva parlare un mio scolaro, ma l’impiegato dei morti avvertì che non c’era tempo. C’era invece il rabbino della comunità israelita, che aveva fretta di parlare per due suoi correligionari, i quali aspettavano, in due bare come la mia, il discorso commemorativo.

Allora io sono partito: sono partito nel tram tutto nero che va a Musocco, perchè quello è obbligato a correre, anche con la neve.

Io sono fuggito, dunque, via con alcuni ignoti compagni; e voi siete rimasti lì a piedi nella neve, colleghi, e dovrete tornare a casa a piedi, perchè i tram non corrono con questa neve; perchè qui non è come a Berlino, che si sparge il sale per le vie.

Sì, sì: vi do quest’ultimo consiglio anch’io, come il professore di filosofia: «Bisogna spargere del sale, come fece il Barbarossa!»


F i n e.


Note

  1. Baghino in dialetto romagnolo vale maiale.