XVIII. Negrito, il feroce

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XVII XIX

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XVIII.

Negrito, il feroce.


Guardate là, là su la spiaggia del benefico mare!

È stata la signora Adele, la mamma, ad accorgersi che Robertino non c’era più; giacchè, pur conversando, il suo occhio gira ogni tanto e cerca dov’è quel suo tesoruccio biondo. Non l’ha più visto: ma bene ha visto Negrito. Mandò un grido d’angoscia; si levò dal crocchio; accorse.

Accorsero tutti. Dio, il suo Robertino affogava?

No, non affogava: era Negrito, il cuginetto, che lo teneva a forza nascosto sott’acqua. La signora Adele ritorna col suo piccino sul petto, che trema come una lepre sfuggita al bracco; con l’altra mano trascina Negrito, che punta i piedi per non venire.

Ora ognuno ha fatto festa a Robertino; e, per consolarlo, ognuno gli ha offerto qualcosa:

«To’ il confetto, to’ il cavalluccio, to’ la barchetta!» Egli abbracciò ogni oggetto con le sue manine, sorrise, obliò.

[p. 249 modifica]— Ma che cosa ti ha fatto questo povero bambino che tu lo tenevi sott’acqua? ma di’ che ti ha fatto? ma di’? — domandava la signora Adele.

Nulla! Negrito stava immobile, sorpreso da quei rimproveri.

E noi dicevamo: — Ti faremo mettere in prigione! — Chiameremo i carabinieri! — Ma sai che si va in prigione a far così? — Oh, io ti rimando subito da tua mamma; questa è l’ultima che mi fai, non ti voglio più con me, più, più!

Ad ogni minaccia Negrito levava gli occhi come per vedere chi era colui che parlava: ma nulla rispose. Io guardai quegli occhi sereni e meravigliati di Negrito; e vi lessi questo semplice pensiero: «Ma io mi divertivo tanto a vedere soffocare nell’acqua Robertino sotto le mie mani; perchè dunque mi rimproverate? Lui faceva forza; ed io facevo ancor più forza».

Infine Negrito si accoccolò in un canto e si mise indifferente a scavare la rena: bisognava pur divertirsi in qualche altro modo! Or dunque, mentre le donne discorrevano della cattiveria di Negrito e della innocenza di Robertino, io li osservava entrambi. Biondi, rosei di volto ambedue. Robertino ha cinque anni; Negrito, sette; si assomigliano; eppure, osservando attentamente i volti dei due cugini [p. 250 modifica]hanno qualche cosa di diverso. Quello di Robertino è più mobile: un rimprovero (basta dirgli: «Cattivo, Robertino!»), una lode («Robertino è tanto buono, è il cocco della mamma sua!»), si riflettono nelle pupille ridenti e nel volto diafano come entro uno specchio. «Robertino, va a prendere lo sgabello e portalo alla mamma!» e lui va, piano, prudente, barcollando come un vecchietto, e torna felice con lo sgabello. Il volto di Negrito, invece, rimane rigido; la pupilla non riflette ciò che è esterno. Se gli si dice: «Negrito, fa la tal cosa»; «Negrito, non buttare l’arena contro le persone», è quella volta che Negrito accumula tutto il suo entusiasmo, e fa peggio.

Perché Negrito è così? I suoi genitori quando lo misero al mondo dissero forse: «Noi vogliamo che la creatura che nascerà da questo amore, sia feroce?». Ma nessun padre augurò mai questo! Buono e bontà sono augurate parole dei padri ai figliuoli; anzi sono meravigliose parole, giacchè il loro senso è inteso da tutti, ma per scienza non hanno chiara spiegazione. E allora? Mah! Probabilmente si deve trattare di una specie di microbio, non ancora isolato dagli scienziati. Certo è che per Negrito era un esercizio piacevole quello di vedere, sotto la propria forza, soffocare Robertino. [p. 251 modifica]I miei bambini non sono certo come Negrito; eppure anche loro trovano un compiacimento squisito nell’esercizio della ferocia. Quante volte non mi sono arrabbiato per quella storia delle frecce!

No, non basta che l’arco della balestra sia robusto. Il godimento non è pieno se la freccia non ha la punta d’acciaio, che dia l’illusione di un’arma vera. Io li ho sorpresi, nell’ora della siesta, in cucina, con altri compagni della stessa proporzione, intenti al lavoro delle frecce. Uno rompeva la capocchia degli spilli, un altro scioglieva il catrame sul fornello. E che serietà in quel lavoro! Parlavano come piccoli uomini: esaminavano le punte su le palme delle manine e dicevano: «Questa se entra dentro, può ammazzare da vero!» «Almeno levare un occhio!»

— Ah, sì? — e spalanco la porta: Che terrore, poveri piccini! Hanno mandato un grido, hanno preso le loro armi e sono fuggiti; ed io li ho inseguiti, ma un po’ per volta mi venne in mente la figura di Gulliver che insegue gli abitanti di Lilliput. Ciò è abbastanza ridicolo; anche per il fatto che ad ottenere un certo risultato, bisognerebbe conservare le proporzioni di Gulliver specialmente rispetto agli uomini grandi.

È questione di nervi. L’idea della f e r o c i a [p. 252 modifica]è diventata per me da qualche tempo una specie di melanconia fissa, che mi oscura lo splendore della vita e mi procura molte mortificazioni, del genere di quelle che mi inflisse l’egregio avvocato Pasqualino.

La virtù del silenzio e del lasciar fare, quando non fanno male a te, non sarà mai abbastanza lodata.

Che bisogno c’era dì investire l’avvocato Pasqualino con parole sarcastiche?

Egli se ne stava tranquillo come gli altri ad osservare i bei colpi dei cacciatori, contro le rondinelle del mare, così belle, così candide e così stupide! Era un divertimento la loro stupidità, perchè i cacciatori buttavano in aria quelle che avevano ferito; e ciò serviva da richiamo alle altre, che accorrevano in gran numero, stridendo, contro i fucili in mira dei cacciatori. Grande era il tripudio dei bambini e dei cani, i quali a gara si precipitavano nell’acqua a raccogliere le rondinelle.

Anche quello era un semplice esercizio, perchè da mangiare non sono buone le sciocche bestiole.

V'erano anche alcune giovinette a guardare; ed una che era tanto gentile che pareva tolta dalle figure estatiche della Pomposa, chinò la persona e la testa chiomata sopra una [p. 253 modifica]rondinella, stesa supina, con le bellissime ali aperte, come per meglio lasciare fuggire la vita.

— Ma sapete — disse alle compagne — che queste ali, ma precise a queste, si vendevano in un negozio di cappelli, sotto il Pavaglione, due lire il paio?

Le amiche, meravigliando, pur ne convennero. — Bisognerebbe saperle preparare! — disse una, e l’avvocato Pasqualino, che era lì presso, disse: — Volete, signorine, che ve le prepari io? Sono un poco imbalsamatore.

Già. io l’aveva un po’ su con l’avvocato Pasqualino. Egli era quegli che, a proposito della mia idea di fare cavaliere del lavoro il p i u s a g r i c o l a, aveva assicurato che una fra le cose certe era che io non sarei mai riuscito, nemmeno deputato. L’avvocato Pasqualino è un entusiasta trombettiere della modernità; e non manca di un avvenire politico. In quel giorno la soddisfazione di trovarsi al mondo al principio del secolo ventesimo, appariva sul florido volto; e i suoi baffetti neri erano più impertinenti che mai.

— Sì, sì, — pigolarono festosamente le giovanette, e allora egli levò di tasca un paio di forbicine e cominciò con molta calma a tagliare e pareggiare quelle povere ali, così care all’azzurro ed al sole: t i c, t a c!

Quel t i c, t a c irritò il mio infelice sistema [p. 254 modifica]nervoso, e il freno del silenzio mi venne a mancare.

Quel recidere ali, quel pareggiare, quello sterilizzare mi parvero come un atto simbolico di ciò che avviene nella vita. «Ma non t’accorgi, Pasqualino, che non cresce più un fiore con tutta questa sterilizzazione?»

Oh, non avessi mai espresso questo pensiero!

I baffetti di lui cominciarono a vibrare, e le sue parole divennero insolenti. Quante me ne disse! — Lei non capisce niente del movimento moderno. Lei era degno di vivere ai tempi di Omero.

Oh, egli non avrebbe finito così presto, se non fosse venuta la sua signora ad interrompere: — Ma Pasqualino, — disse, — i tagliolini sono in tavola!

Si placò: stette un po’ incerto se proseguire a darmi il resto del carlino, ovvero rispondere all’invito dei tagliolini. Preferì questo secondo partito, e: — Quello lì, vedi, — disse alla moglie additandomi, — è un uomo dei tempi omerici!

Pasqualino e gli altri se ne erano dunque andati; ma le sue parole mi avevano gonfiato il cuore, ed io feci come la loquace moglie che seguita a parlare anche dopo che il prudente marito ha infilato l’uscio di casa.

Il mare azzurro rotolava le sue onde canute, [p. 255 modifica]ancora come ai tempi di Omero. Oh, ma dove sono fuggite quelle splendide nudità, dove sono esulate le parole chiare, semplici, ignude? Sì, quegli eroi di Omero erano molto sanguinari: ma quando Giove non li investiva della sua ferocia, dicevano pure meravigliose cose! Quando si pensa, o Pasqualino, che erano tutti analfabeti a quel tempo, c’è da rimanerne stupiti.

Però anche Pasqualino non ha torto. Io male provvidi leggendo Omero e Platone. Questi benedetti greci hanno fatto di me quasi un ateo della religione moderna: io mi annoio a dire le nuove litanie, come mi annoiavo a dire quelle vecchie quand’ero bambino. «Tu andrai all’inferno!» mi ripeteva una mia povera zia, e Pasqualino mi dice lo stesso. Pasqualino e compagni non si trovano mai bastantemente abbigliati; l’ultimo stile della loro moda è più complicato del precedente ed io vagheggio le nudità antiche! È un anacronismo! E più avresti motivo di vilipendermi se ti dicessi che per trovare un poco di umanità in istato semplice, ero venuto volentieri fra questi pescatori seminudi e analfabeti! È meglio vestirli anche loro. Ti ricordi, Pasqualino, quell’insignificante fatto di cronaca dei giorni addietro quando è affogato qui quel povero giovane?

Era di pieno giorno, con un sole e un mare [p. 256 modifica]belli come oggi: a due passi dalla spiaggia è affogato; lì, fra compagni e signorine, mentre faceva salti, capriole, balli nell’acqua. Quando quel leggiadro corpo fu gettato su la spiaggia col capo riverso (oh, quel dolce volto che aveva visto la sua morte, come era diventato enorme, terribile!), ti ricordi con che occhi attoniti gli si affollarono intorno le donne con le chiome stillanti su gli accappatoi bianchi? Come fissavano a lungo! Non lo riconoscevano più! Il severo Thanatos, intanto, aveva inalberato il suo stendardo nero, sotto il sole!

Il buon popolo analfabeta trovò — è vero — alcune espressioni gentili e semplici; ma come è stato anche lui feroce nella sua superstizione, il buon popolo! Nessuno dei pescatori ha voluto ospitare il povero corpo alla notte. «Dopo ci si sente — dicevano — E come si farà ad affittare ai bagnanti?» Non c’è stato che Giacchetto, il piccolo vecchio sbarbato, Giacchetto, che parla con voce di grande umiltà, ad aver misericordia di «quel povero figlio!», e l’ha accolto nella sua capanna per amor di Dio, cioè per sole cento lire, giacchè «il suo prezzo vero» era di quaranta scudi, almeno; cioè l’affitto di una stagione! Come potrà più affittare la sua capanna se dentro c’è stato un morto? «Ma non [p. 257 modifica]siamo tutti cristiani?» dicea il buon Giacchetto, ed ha ospitato il povero morto.

Che terrore quella notte, con quel morto in quella capanna, da cui veniva fuori il bagliore dei ceri! Le pescivendole che si levano a mezzanotte per recarsi alla conserva a prendere i cestelli del pesce, fecero un lungo giro per non passare davanti alla casa di Giacchetto. Oh, ma fu lo stesso la notte del terrore quella! Due occhi di fuoco avanzavano, lenti lenti, per la via, bianca sotto la luna; e un grido ogni tanto, un grido che riempiva la notte e le impaurite si buttavano contro le siepi. Non era, no, il diavolo che scuotea le catene; è una vecchia carrozza, è una sonagliera al collo di un cavallaccio; e dentro la carrozza c’è una vecchia madre che viene da lontano, all’improvvisa chiamata; giacchè a temperare l’antica ferocia furono create le madri!

Il bel funerale il giorno dopo; il bel carro mortuario venuto apposta dalla città; tutto parato a nero e giallo; e il vecchio becchino intontito, colla lucerna di felpa; e le corone; e dietro tutti quei signori ben vestiti; e il prete che era in vena di cantare quel giorno. «Oh, che cosa vuol dire essere signori!» ripeteva la gente mentre passava il bel funerale. [p. 258 modifica]Va là, Pasqualino, sterilizza questa natura grezza, e insegnaci l’alfabeto! La natura? Ella se ne ride bene! Il plenilunio di settembre non è stato per ciò meno luminoso: nè la sera meno tepida. I bambini accendono lo stesso le loro lanterne alla veneziana, gialle e rosse, e i giovani accordano i mandolini e le chitarre lo stesso. La spiaggia del mare è soffice come un divano. È così bello fare all’amore al lume di luna. Vedi quei due? Essi fanno all’amore sul serio. Lei così languida e sentimentale, lui così ardente, e così felice se non dovesse aspettare. Ai tempi omerici, Pasqualino, non c’era il sindaco e non c’era lo stato civile. Le cose erano più semplici allora. In questo ne converrai: e suicidi per amore non avvenivano. Sciocchezze queste, lo so. Ma sai a che cosa penso? A quella povera vecchia mamma che venne qui, quella notte. Anche lei, trenta, o quarant’anni fa, avrà fatto all’amore come quei due. La consacrazione in chiesa, il sindaco, poi il bambino che nasce, dice: «papà! mamà!» ride, poi il primo dente, i balocchi, poi gli studi; poi un caso; un attimo, e Thanatos eleva il suo stendardo nero!

Tutto ciò come si ripete melanconicamente! come la legge delle cose domina, e non riuscirai no, a sterilizzarla, Pasqualino!

Vedi, quando io mi affisso nei miei bambini, [p. 259 modifica]e penso a queste leggi invincibili, mi sento irrigidire il cuore. Sai che cosa feci la Pasqua scorsa? cosa feci io, che rincorrevo i bimbi perchè mettevano le spille alle frecce? Sta a sentire:

Era sabato santo: si desinava all’osteria del villaggio; noi tre, la mamma mia, il bambino ed io. Il giorno era pieno di raccoglimento e di silenzio; un pallido sole indorava le foglie tenere: e l’erba del grano verzicava fra i papaveri nascenti.

— Dove sono i bambini dell’oste?

— Sono andati a vedere ammazzare gli agnelli.

Allora il mio bambino disse:

— Voglio andare anch’io!

Disse la nonna:

— Non ti vergogni? — e spiegò perchè era vergogna quella curiosità.

Egli si confuse e non insistette.

Ma quando il desinare fu finito, io stesso mi levai, e preso il figliuolo per mano, dissi:

— Andiamo!

— Dove?

— A vedere ammazzare gli agnelli.

Andammo.

La bottega del macellaio era lì presso: nella semioscurità erano cumuli di piccoli lanuti [p. 260 modifica]con le zampine legate entro ritorte funi. Quelle piccole bocche, coi dentini da latte, si aprivano per mandar fuori un «be!» a tempo, ogni tanto: cessavano, e poi ripigliavano con un «be!» di fastidio, lungo, straziante, vibrante, come dire: «non è bello quello che qui avviene. Ieri pasturavamo le prime erbe, saltellando accanto alle nostre mamme, su la montagna. Qui dove siamo?» Poi, uno ad uno, erano afferrati dal macellaio che lavorava in un sudicio cortiletto, e, sciolti i due piedi dinanzi, i due piè posteriori erano appesi a due cavicchi, infissi in un gelso, così che il capo ne penzolava. Allora l’uomo (uno scarno, sporco uomo) faceva scomparire il coltello, lucido (perchè il sangue sull’acciaio mal si fermava) nel vello dolce, candido: e questa prima operazione avveniva senza che la vittima desse segno alcuno manifesto: poi, dopo essere scomparsa, la lama riappariva di fianco rapida, sicura: aveva reciso: dal candore della lana saltava fuori la canna della gola, e rigurgitava un fiotto luminoso, rutilante: si capiva che quel fiotto conteneva il segreto della vita.

Era un momento atteso perchè i bambini se lo additavano quel rigurgito di sangue col piccolo dito che voleva dire: «Ecco il sangue!»

Allora soltanto l’agnello si risentiva e pareva capire; e le piccole gambe sospese [p. 261 modifica]facevano l’ultimo sforzo per sottrarsi al martirio: ma l’uomo diceva all’agnello: «Sta buono, va là, che adesso è fatta!» (come dire «adesso puoi vivere in pace!»). Quindi metteva un cannello fra la pelle lanuta e la carne e fortemente soffiava, onde tutto il misero agnellino si deformava gonfiando.

E quel momento era pure atteso dai piccoli spettatori, i quali ridevano vedendo l’agnello gonfiare da ogni lato.

Dopo che aveva gonfiato, in un attimo lo spogliava del vello.

— E dà ancora calci! — diceva il carnefice, rimproverando l’agnello.

Erano gli ultimi tratti che parevano significare ben altro dall’incosciente «be!» di prima: significavano: «ora capisco tutto: ora io so! va, brutta, vile vita!»

Ma come il sacco delle interiora era tolto e buttato, come la corata bellamente era staccata ed esposta, quasi fosse una decorazione, ai ganci, non palpitavano più che le tenui fibrille; ma quel palpito pur diceva: «Va, vita vile!»

— Ho la mano indolenzita, — diceva ogni tanto calmo calmo, il carnefice, mostrandomi la sua mano grommata di sangue, — ed ho ancora tutti quelli là! — indicava il cumulo dei lanuti che ogni tanto gemevano: «be!»

[p. 262 modifica]Per la sera egli doveva aver finito, perchè sull’ora del vespero venivano da ogni termine lontano a comperare l’agnello per il giorno della Resurrezione.

Oh, melanconica Pasqua della Resurrezione; oh, tristezza di queste mani insanguinate attraverso tutte le età!

Melanconie fisse, lo so; questione di nervi e di dormire poco la notte. Tu invece dormi le tue otto ore filate, e al mattino senti la voce sempre placida della tua signora, che ti dice: «Pasqualino, ecco il caffè». Fai la   t o i l e t t e   elegante, e vedi su lo specchio che l’umanità gode buona salute: dopo ti pasci lo spirito delle notizie che ti offre il giornale, e noti le tappe di avanzamento: i punti superati.

Certo, del progresso se ne è fatto! L’effusione del sangue si va sempre più riducendo agli stretti limiti del necessario; e quando si pensa che siamo in tanti, che siamo in tanti a far ressa agli sportelli del Banco di sconto della vita, e si vede che invece di digrignare i denti, ci sorridiamo l’uno con l’altro, e ci diciamo: «Buon giorno! buona fortuna!» via c’è da sperare bene. Certo, per mangiare i tagliolini in brodo, un po’ d’effusione di sangue ci vuole. Scusami, dunque, se ti parlai acre. Vedrò di emendarmi. Tu intanto, [p. 263 modifica]Pasqualino, sii buono, non essere inesorabile come un antico sacerdote, non mi mettere all’Indice. Anch’io ho qualche cambiale da scontare al Banco della vita.

Ma Pasqualino è su la poltrona a far siesta. Egli ripete il suo gesto: «Addio, uomo dei tempi omerici!»